Introduzione

Luisa Carbone Tirelli

Configurazioni ossessive in adolescenza

Introduzione

luisa carbone tirelli

Nell’introdurre con questo focus una prima riflessione su sintomi e comportamenti ossessivi in adolescenza, va rilevata la difficoltà e l’imbarazzo della psicoanalisi attuale nell’uso delle categorie diagnostiche proprie della psicopatologia. Ciò è comprensibile poiché la categoria diagnostica, a differenza di ciò che avviene in psichiatria dove la diagnosi è la necessaria premessa alla cura, può contrastare con l’instaurarsi di una situazione relazionale che dal suo inizio fonda il setting e permette lo svolgersi del processo psicoanalitico al di là di sintomi e comportamenti, ma con l’attenzione rivolta alla possibile dinamizzazione di tali elementi nella relazione analitica. L’analisi, la psicoterapia a indirizzo analitico è campo di trasformazioni più che di definizioni e di diagnosi descrittive, eppure si è già rivelata fertile la proposta di una precedente riflessione di gruppo sulle depressioni in adolescenza (Richard e Piggle, 2012), e altrettanto interesse sta creando aver posto l’attenzione sui disturbi in adolescenza con caratteristiche ossessive. Circoscriveremo in questo Focus il campo del nostro studio a quelle situazioni che si presentano con ossessioni vissute con profonda sofferenza, quindi egodistoniche. È molto difficile in età evolutiva la richiesta di trattamenti per soggetti con carattere ossessivo che manifestano il disturbo con modalità egosintoniche.

Mi sento in sintonia con la proposta di Ferro e Riefolo nel loro studio sull’isteria, nel considerare appropriato il termine configurazioni per indicare: “Seguendo le tesi bioniane e coniugandole con le recenti ricerche delle scienze neurobiologiche che ogni quadro clinico sia da intendere come il prevalere – in alcuni soggetti e in alcune fasi della vita dei soggetti, in particolari condizioni non ripetibili sperimentalmente – di configurazioni, di schemi relazionali appresi precocemente e continuamente rimodellati, ‘complessificati’ (Tononi) da nuove esperienze”. Il concetto di configurazione, così inteso, “potrebbe quindi proporsi come componente di base della psicopatologia psicoanalitica, quanto le figure e i quadri psicopatologici sono alla base della psicopatologia psichiatrica” (Ferro, Riefolo, 2006, pag. 18).

A maggior ragione pensiamo che questa definizione valga per l’emergere di sintomi e comportamenti disturbanti, ma spesso transitori, in una fase di vita evolutiva come l’adolescenza che impone, soprattutto al suo esordio, rapide trasformazioni del corpo associate a una mobilizzazione del mondo interno e delle fantasmatizzazioni sentite a volte troppo repentine e inquietanti per chi non è attrezzato a viverle. In adolescenza “i nodi vengono al pettine” ed è un’occasione, a volte un’urgente necessità, una sfida affrontarli, perché la pubertà impone all’individuo di rivisitare le relazioni nel mondo interno e nella realtà con l’altro da sé. Dare senso ai comportamenti e ai sintomi in un percorso psicoterapeutico, può favorire un’evoluzione di essi senza ricorrere necessariamente a definire, inquadrare in schemi diagnostici rigidi ciò che può già essere vissuto come ostacolo alla crescita, ma anche come angosciante scacco, per individui che essendo alla ricerca di definizioni di sé, sono pronti ad abbracciare anche quelle penalizzanti.

Aver proposto a un gruppo di colleghi il tema dei disturbi ossessivi in adolescenza – non abbiamo trovato letteratura specifica sull’argomento – come prima risposta ci ha segnalato moltissimo materiale clinico di giovanissimi e giovani pazienti con manifestazioni di tipo ossessivo e compulsivo più o meno invalidanti. Ciò contrasta e pensiamo sia di qualche rilievo, con la sensazione: “di una netta diminuzione, se non di una scomparsa di casi di nevrosi ossessiva dai nostri studi”, rilevata nella premessa dell’interessante libro Nevrosi Ossessiva curato da Enrico Mangini, (Mangini, 2010) a cui rinviamo anche per l’ottima bibliografia e per l’ampia ricostruzione storica e metapsicologica.

Concordiamo con l’Autore sulla desuetudine all’uso del termine “nevrosi ossessiva” e con il riscontro di un minor interesse nei confronti di esso anche nella letteratura psichiatrica, lasciamo aperta la questione sul perché sia Freud che M. Klein dopo un iniziale, intenso interesse su quello che Laplanche e Pontalis (1967) definiscono “uno dei quadri principali dell’esperienza psicoanalitica”, si siano entrambi “distratti” dal tenere, in una fase successiva della loro teorizzazione, in primo piano la nevrosi ossessiva. Non convince l’ipotesi che il termine nevrosi ossessiva sia divenuto desueto poiché orienta l’attenzione su un sintomo, per quanto essenziale, più che sulla struttura, che a volte si presenta senza sintomi ossessivi caratterizzanti. Freud infatti afferma: “Le formazioni ossessive possono essere costituite dai più diversi atti psichici” e scrive ancora in riferimento alla nevrosi ossessiva: “In questa malattia la rimozione non si effettua mediante l’amnesia, ma attraverso il venir meno dei nessi causali che consegue alla sottrazione di affetto. Ora questi nessi rimossi appaiono serbare una sorta di forza ammonitrice che ho altrove paragonato ad una percezione endopsichica – così che essi vengono, mediante una proiezione, trasferiti nel mondo esterno e quindi danno testimonianza di ciò che è stato cancellato dalla coscienza” (Freud, 1909). Commenta Rey che questa definizione di Freud è la migliore definizione della struttura mentale che uno strutturalista potrebbe desiderare, (Rey, 1988). In base alla mia esperienza sarei portata a ipotizzare che negli ultimi decenni i sintomi ossessivi si siano nascosti nelle pieghe e siano divenuti secondari rispetto a quadri clinici che hanno assunto maggior rilievo nella letteratura e nella clinica. Faccio, solo ad esempio, riferimento in età evolutiva alle anoressie, nelle quali comportamenti rituali e pensieri ossessivi sono così presenti e ai nuclei psicotici, in particolare a quelli che si manifestano con tratti autistici, tratti caratterizzati da una ripetitività ossessiva. Ci stiamo chiedendo se dare ad essi maggior rilievo, metterli in luce, può avere qualche ricaduta nel corso del processo analitico.

L’apporto sul tema in questo Focus verterà quindi sull’esposizione delle nostre riflessioni tratte dal materiale clinico di pazienti adolescenti, in un ottica che si fonda su teorizzazioni che vanno dalla Klein ai post Kleiniani con un particolare riferimento a Bion, ma che partono dalle rivoluzionarie e fondanti intuizioni di Freud. Estrapoliamo a tal fine alcuni punti del pensiero di Freud sulla nevrosi ossessiva rilevanti anche per la ricaduta sul filone di studi a cui ci riferiamo.

Una prima considerazione va alla scelta del termine ossessivo, ossessività che evoca l’influenza, l’impossessamento di un persecutore, il demone, che assedia l’Io. Nel descrivere nel 1894-95 quella che definisce “un’ innovazione nosografica”, Freud pone accanto all’isteria la “nevrosi delle ossessioni” come affezione autonoma e indipendente. Ci sembra grande il merito del fondatore della psicoanalisi quello di spostare l’accento da una condizione del soggetto sottoposto a pesanti influenze esterne al conflitto interno che mobilita e mette in scacco le sue energie. Il conflitto psichico che Freud descrive nel corso della sua opera si manifesta attraverso la descrizione “di sintomi detti coatti: idee ossessive, coazione a compiere atti indesiderabili, lotta contro questi pensieri e queste tendenze, riti di scongiuro, ecc, e con un modo di pensare che è caratterizzato soprattutto dalla ruminazione mentale, dal dubbio, dagli scrupoli e che provoca delle inibizioni del pensiero e dell’azione. Freud ha successivamente esplicitato la specifica eziopatologia della nevrosi ossessiva dal punto di vista dei meccanismi (spostamento dell’affetto su manifestazioni più o meno distanti dal conflitto originario, isolamento, annullamento retroattivo), dal punto di vista della vita pulsionale (ambivalenza, fissazione allo stadio anale e regressione), dal punto di vista topico (relazione sado-masochistica interiorizzata sotto forma di tensione tra l’Io e un Super-Io particolarmente crudele), (Laplanche e Pontalis, 1967).

La Klein si pose sulla scia di Freud, ma l’incontro con bambini molto piccoli, alcuni sotto i tre anni, nella stanza d’analisi la mise a contatto con piccoli pazienti che usavano modalità ossessive, interminabili rituali, per controllare le angosce, scoprì così ben presto il tratto psicotico che questi sintomi nascondevano. Si accorse nel 1927, ad esempio, che alla base della grave nevrosi ossessiva di Erna c’era una paranoia e furono queste scoperte a interessarla maggiormente ai meccanismi di proiezione che Freud aveva descritto nella paranoia e alle modalità di introiezione e di proiezione di cui si occupava anche Abraham. È dell’anno successivo, 1928 la descrizione dei Primi stadi del complesso edipico e l’anticipazione alla fase pregenitale delle fantasie edipiche. Le difese che si instaurano nei primi mesi di vita la fecero molto riflettere, si rese conto che mentre i meccanismi ossessivi erano diretti al controllo, quelli proiettivi e introiettivi permettevano lo sviluppo della personalità del bambino e servivano alla costituzione del mondo interno.

È dalla fondamentale ipotesi di un Io attivo sin dalla nascita con una serie di funzioni all’origine, come quella di identificare gli oggetti, ma anche di incorporare e espellere in fantasia, che la Klein sviluppa i concetto di introiezione e proiezione. Sottolineo l’importante scoperta di un istinto epistemofilico nella relazione con il seno, che diventerà in Bion fattore K, motore della mente che mette in stretta relazione gli aspetti cognitivi con quelli libidici e affettivi, perché tale istinto nelle configurazioni ossessive è messo fortemente in scacco. Rinvio ad una descrizione più esaustiva della teorizzazione Kleiniana al Focus sulla depressione in adolescenza. (Carbone Tirelli, Di Giuseppe, 2012), mi limito qui a elencare i punti focali della teorizzazione kleiniana che possono offrirci spunti preziosi nel lavoro clinico con gli adolescenti di cui parleremo nel Focus.

1) L’Io attivo sin dalla nascita. È questa un’ipotesi che permette alla Klein la descrizione di una vita fantasmatica che accompagna dall’origine l’incontro con l’oggetto dando luogo a un complesso mondo interno dotato di oggetti in relazione tra loro, oggetti parziali, nella posizione schizo-paranoide, ma dotati di caratteristiche che impronteranno all’avvento della posizione depressiva gli oggetti totali. Una sottolineatura che apre a successive preziose elaborazioni del pensiero Kleiniano come quella proposta da Bion di oggetti parziali nell’accezione di oggetti emozionali, terrorizzanti e protettori, buoni e cattivi, costitutivi di un primo senso di identità. È la relazione tra questi oggetti interni a determinare quelli che la Klein coraggiosamente chiamerà “Primi stadi del complesso edipico” (Klein, 1928).

2) I primi stadi del complesso edipico, ipotizzano che vi sia una continuità tra gli affetti e le rappresentazioni di un edipo primitivo e la costituzione del successivo classico complesso edipico che si raggiungerà se gli oggetti della realtà psichica, non troppo danneggiati, avranno permesso al bambino di sperimentare la propria ambivalenza, ossia di provare nei confronti dell’oggetto materno, sentimenti contrastanti. Se le cose funzionano, se le carenze e le angosce nella posizione schizo-paranoide non sono troppo intense e persistenti, verrà a ricomporsi la scissione e l’idealizzazione del sé e degli oggetti – scissione e idealizzazione, ricordiamo, con funzioni all’origine anche costitutive in senso affettivo e cognitivo –. È l’uscita dall’egocentrismo che caratterizza l’inizio dell’esistenza. L’oggetto raggiunge una vita propria e, visualizzato nella sua interezza, susciterà sentimenti ambivalenti, anche di compassione, di riparazione, ciò permetterà l’accesso alla posizione depressiva, alla scoperta del terzo, padre, nuovo oggetto d’amore e alla percezione di una relazione tra gli oggetti che apre alla concezione della coppia genitoriale. Il bambino è quindi alle prese con la triangolazione e con l’accesso alla simbolizzazione, alla cognizione spazio-temporale che la triangolazione comporta, già alla fine del primo anno di vita. L’edipo va inteso quindi in senso ampio nella sua funzione strutturale per la maturazione della mente.

Metto in rilievo, anche per sostenere il senso che assume la difesa di tipo ossessivo in alcuni esemplificazioni degli scritti del focus, un’importante sottolineatura di Hinshelwood per cui con l’elaborazione della posizione depressiva avviene un movimento rivoluzionario nella teoria Kleiniana. Fino al 1935 l’attenzione della Klein si era concentrata sulle paure paranoidi e sull’oggetto cattivo, fonte di frustrazioni e meta di proiezioni. Nel 1935, “con la sua teoria degli oggetti interni la Klein si trova nella condizione di poter definire quale perdita d’oggetto fosse importante. Come nella teoria freudiana della melanconia, la perdita importante è quella dell’ oggetto interno buono, strettamente collegata alla perdita dell’oggetto esterno”, (Hinshewood, 1989).

3) La concezione dello sviluppo non attraverso stadi ma attraverso posizioni. È stato Bion a fare della tolleranza alla frustrazione un importante metro di valutazione della maturazione e dell’equilibrio mentale, ma la Klein indica già nel 1928 come siano le frustrazioni legate all’alimentazione, ma soprattutto allo svezzamento a spingere il neonato dalla posizione schizo-paranoide: Ps, verso la posizione depressiva: Pd e verso il suo primo superamento. Il termine posizione è riferito all’oscillazione non solo nel primo anno e nel corso dello sviluppo, ma nell’arco dell’intera vita, tra gli stati di maggiore o minore integrazione che caratterizzano le due posizioni. Bion nel 1963 propone l’equazione: Ps↔Pd. Lo scivolamento, che l’equazione descrive anche reversibile, nei vissuti affettivi e nelle rappresentazioni che caratterizzano Ps, può essere causato da eventi traumatici, da lutti difficili da elaborare, ma aggiungiamo noi da momenti di passaggio cruciali nel corso della vita che possono trovare gli individui non sufficientemente attrezzati.

Abbiamo individuato nella pubertà, esordio dell’adolescenza, uno di questi momenti, poiché per l’accesso all’età adulta si rendono necessari l’elaborazione di lutti e l’acquisizione di nuovi legami. La rivisitazione dell’edipo e il suo nuovo superamento è la tappa necessaria per integrare le rappresentazioni del proprio corpo sessuato nell’immagine di sé e di sé in relazione con gli altri. Consideriamo fisiologica, all’esordio dell’adolescenza, una temporanea oscillazione tra le due posizioni: “All’esordio dell’adolescenza, per un periodo più o meno lungo i ragazzi oscillano tra la rivisitazione di un edipo Kleiniano che prepara con i suoi modelli l’accesso alla posizione depressiva e un edipo freudiano che nella maggior parte dei casi ha consentito attraverso la latenza l’accesso alla pubertà e ora apre le porte all’età adulta” (Carbone Tirelli, 2006). Non è fisiologico ed è testimonianza di disagio il perdurare di sintomi e comportamenti che danno conto di uno scompaginamento nel mondo interno difficile da gestire: il ricorso a rituali che bloccano il pensiero, a difese ossessive che evitano la relazione con l’altro, a masturbazioni coatte, pensieri e atti quasi sempre tenuti segreti, sono i segnali di una difficoltà di accesso a queste necessarie elaborazioni e possono essere i prodromi dell’instaurarsi di quadri patologici più complessi.

Ci sentiamo quindi di confermare, attraverso decenni di lavoro clinico, l’ipotesi dei Laufer che il breakdown di ragazzi e giovani adulti da loro trattati sia avvenuto alla pubertà e che abbia avuto un effetto cumulativo nel corso degli anni dell’età adolescenziale. È l’ipotesi che si evidenzia nei lavori di Mazzoncini, Quintiliani, Ferrigno del Focus che presentiamo, ma un’altra ipotesi che condividiamo è che l’esordio dell’adolescenza, diventando il rilevatore di antiche angosce, fa emergere affetti e rappresentazioni che danno conto di difficoltà, di distorsioni, di scacchi antichi, nella relazione primaria con gli oggetti.

È stato Freud a metterci su questa strada quando, ad esempio, afferma alla fine dei Tre saggi sulla sessualità infantile, che “La scelta oggettuale avviene sempre per libero appoggio a questi modelli” (Freud, 1905, p. 532). I modelli cui Freud si riferisce per la scelta dell’oggetto sessuale sono quelli dalle relazioni infantili con i genitori.

Riteniamo centrale il suggerimento di Freud di ricorrere all’idea di modello, concetto che Bion ha magistralmente elaborato in Apprendere dall’esperienza (Bion, 1962). Alla pubertà si presenta all’individuo la necessità, ma anche l’occasione di una revisione dei modelli acquisiti. Quando la rimozione di originari traumi, di scacchi che la fase di latenza ha consentito, anche se in modo sofferto e parziale, perde di efficacia perché il corpo con i suoi mutamenti, anche di tipo ormonale, influenza la fantasmatizzazione e suggerisce nuovi scenari relazionali, ci troviamo con i giovani pazienti oggetto della nostra attenzione, di fronte a tre possibili tentativi di difesa: l’isolamento dell’affetto, responsabile di pensieri angoscianti per il soggetto a causa della qualità degli affetti, spesso aggressivi o distruttivi, erotizzati, che si propongono prepotentemente alla mente, l’annullamento attraverso tentativi coatti di eliminare atti e rappresentazioni che diano prova alla coscienza dell’esistenza di quegli affetti, la formazione reattiva che impone sentimenti che sono il contrario di ciò che il soggetto teme fortemente di vivere e sperimentare. Il riferimento ai modelli acquisiti ci sembra efficace anche per spiegare il collegamento tra i vissuti di molti giovani pazienti e alcune peculiarità dell’ambiente familiare in cui vivono caratterizzato spesso da modalità ossessive, rigide e ripetitive, privo di interesse o di capacità di lettura dell’effetto che regole di vita e di comportamento provocano nei sentimenti dei figli.

La totale adesione acquiescente di questi ragazzi alle norme che spesso caratterizza le descrizioni dei genitori degli anni della latenza – è forse qui che scopriamo caratteri ossessivi che hanno costituito la base di successive irruzioni di sintomi – l’emergere in adolescenza di comportamenti caratterizzati all’esordio da isolamento e da bruschi cambiamenti di umore, testimonia nel mondo interno quel vissuto di confusione all’esordio dell’adolescenza di cui parla Meltzer.

La confusione – sentimento comune agli individui all’avvento della pubertà che rende questo periodo della vita difficile da ricordare – testimonia ciò che avviene nel mondo interno.¹ In particolare “la confusione tra grande e piccolo, tra buono e cattivo, che quando si mettono insieme creano la confusione tra la sessualità buona e la perversa” (Meltzer, 1991), dimostra quanto sia a volte arduo l’accesso all’edipo e ci informa della difficoltà che comporta, tenere attivi vecchi modelli poco compatibili con le nuove acquisizioni fisiche e fantasmatiche che richiedono una revisione degli affetti e dei legami. È per ciò che abbiamo messo in rilievo quanto sia temuta la perdita dell’ oggetto buono. Isolamento, annullamento e formazione reattiva si propongono come strenue difese contro le spinte affettive che ne contrastano la permanenza. Quintiliani nel suo scritto approfondisce questo punto partendo dalla teorizzazione di Abraham (1924) e dalla differenza che viene messa in risalto dall’Autore tra stati maniaco-depressivi e nevrosi ossessiva. Abraham mette al centro la relazione con l’oggetto e la tendenza all’espulsione, all’annientamento nei primi stati, alla conservazione di esso, che può diventare impossessamento, nei secondi. La suddivisione di Abraham della fase sadico-anale in due sottofasi è stata un’utile conferma per la Klein della sua ipotesi di retrodatare le origini del Super Io e del conflitto edipico.

La confusione è terreno fertile per lo sconvolgimento dei parametri spazio-temporali che Iannotta descrive nel suo suggestivo lavoro sulla temporalità. I pazienti adolescenti sembrano aver “perso la bussola del tempo”, “incagliati” nella ripetizione. La “triangolazione temporale”, passato, presente e futuro è nell’articolo collegata alla dimensione edipica.

Aggiungerò alcuni elementi della mia esperienza clinica alle altre del Focus, prendendo lo spunto dalla giovane paziente alla quale debbo l’origine delle mie riflessioni sulle configurazioni ossessive in adolescenza.

Anna giunse da me in un settembre di molti anni fa, aveva 12 anni. La famiglia era sconvolta per un suo esordio anoressico, rilevante per intensità. Aveva perso 14 chili nei mesi estivi e non capivano perché fosse diventata così selettiva nell’assumere cibo. Aveva avuto il menarca a 11 anni, le mestruazioni si erano ora interrotte. Si presentò a me una ragazza carina, sofferente per l’aspetto emaciato, l’estrema sottigliezza del suo corpo suscitava angoscia. Aveva poco da raccontare di sé, ma in mancanza di parole al secondo incontro fece un disegno, scusandosi perché era un disegno della sua infanzia. Disegnò gatto Silvestro che pareva in preda ad una scossa elettrica davanti a un topo della stessa altezza, piuttosto magro che osservava un grande pezzo di formaggio. Le due figure erano racchiuse da un contorno colorato, isolate completamente una dall’altra. Come nominai la paura che gatto Silvestro pareva provare guardò un po’ stupita e si chiuse, non dovevano trasparire sentimenti. Conservai quell’unico disegno. Anna acconsentì, non senza fatica, a prolungare il periodo di consultazione fino a Natale. Stabilimmo un buon rapporto che le permise di confidarmi la sua sofferenza per alcune situazioni che viveva in famiglia: la tata che aveva accompagnato affettuosamente la sua infanzia improvvisamente se ne era andata, genitori separati, nuovi compagni accanto al padre e alla madre, nascita di fratellini, un’ultima molto recente, solitudine. Brava a scuola, un’amica, molto sport con successo. Ragazzi? Forse uno quest’estate… ma… Poche parole, molti sguardi, domande non espresse? Mi parve che questa consultazione prolungata ci avesse messo in contatto e l’avesse in parte tranquillizzata. Non si piaceva temeva di non raggiungere un’altezza adeguata, la crescita si era fermata. Aveva bisogno della presenza della mamma, si sentiva sola il pomeriggio. A seguito di una sua esplicita richiesta intervenni con la madre a rappresentare questa esigenza, manifestò gratitudine per questo. Intanto aveva ripreso ad alimentarsi in modo controllato, ma normale. Mi disse che avrebbe pensato alla mia proposta di un lavoro più intenso e continuativo per conoscersi meglio, per ora no. Raccontò alla fine di questo periodo un breve sogno. Uno dei fratellini andava a dormire da lei. C’era un mostro spaventoso, dei rumori strani… Aiutava il fratellino a mettersi il pigiama. Ignorando ogni riferimento all’atmosfera e al mostro parlò con entusiasmo di questo fratello come “dell’erede di cui era tanto orgogliosa!”. Mi lasciò preoccupata. Ho trovato questa mia annotazione: “Sono colpita dal violento taglio che hanno subito i significati!”. Due mesi dopo venne a chiedere una continuazione.

Accettò una terapia intensa che durò quasi due anni, tornò ancora dopo un’interruzione di tre anni per un ultimo proficuo periodo di lavoro. Mi soffermerò brevemente sulla fase intermedia. Mi chiese nel primo incontro di questa come mai le avessi chiesto se le capitava di contare? Fu il modo che scelse per iniziare il racconto delle ossessioni che la tormentavano, continue e invalidanti. La descrizione di esse veniva fatta con un senso di estraneità, ma sembrava liberarla, sollevarla. La paura che testimoniavano era per le conseguenze magiche e distruttive che le sue azioni potevano avere. Inizialmente narrò quelle su se stessa: uno schizzo di sugo su un pantalone la costringeva a lavare tutti i capi dell’armadio con cui il pantalone poteva essere entrato in contatto, poi parlò delle conseguenze sugli altri: sulle compagne di sfide sportive o di scuola. Ad esempio il passaggio di una saponetta nelle docce richiedeva lunghi rituali per evitare conseguenze catastrofiche, mortali. Studiava il numero di azioni necessario per esorcizzarne gli effetti…

L’attacco che Bion descrive, a seguito di processi di scissione e distruzione delle congiunzioni e connessioni che il paziente schizofrenico mette in atto contro i legami che si istituiscono tra i processi di pensiero: “fa si che il paziente si sente circondato da minuscoli legami che essendo ora impregnati di crudeltà, (elementi beta) collegano gli oggetti in modo crudele”, (Bion, 1957). È anche rilevante il successivo apporto teorico di Bion (Bion, 1959), per cui l’attacco al legame tra due oggetti psicologici è un attacco alla coppia parentale interna, testimoniata, se penso ad Anna, dal suo difficilissimo accesso alla dimensione edipica. Ritengo queste considerazioni di Bion geniali approfondimenti di quanto proposto da Freud nel descrivere “il venir meno dei nessi causali nella nevrosi ossessiva”. L’incessante legarsi degli oggetti con uno stile crudele mi ricorda la sensazione che provavo nell’ascoltare il racconto dell’infinita catena associativa con gravi conseguenze dannose, mortali, che Anna attribuiva alle sue azioni e i faticosi annullamenti, le continue riparazioni, che queste richiedevano. Era una tortura per la mente di Anna, ma anche per la mia.

Le configurazioni ossessive e compulsive ci fanno quindi ipotizzare disturbi del pensiero, scivolamenti nella posizione schizo-paranoide, ma non tutti della stessa entità per le ricadute sulla personalità del soggetto e soprattutto trattabili se prese in seria considerazione al loro esordio in adolescenza. Il lavoro di Paola Ferrigno riporta tre interessanti casi di configurazioni ossessive in adolescenti con gravità differenziate, che potremmo inquadrare nelle tre categorie che i Laufer propongono per valutare l’entità dei danni sullo sviluppo in adolescenza delle manifestazioni patologiche (Laufer, 1984). È interessante osservare nel lavoro di Ferrigno l’evoluzione positiva di tutti i pazienti in trattamento, anche se con esiti diversi.

Vorrei per concludere la mia introduzione sul tema fare qualche cenno alla tecnica d’intervento nel percorso psicoterapeutico che portarono ad una remissione dei sintomi, ancora con riferimento ad Anna. Come dicevo raccontare le sue ossessioni aveva su di lei un effetto liberatorio, stava meglio. Superata la vergogna, potersi confidarle la rassicurava e sembrava per breve tempo consentirle un esame di realtà. Accanto ai racconti portò pochi sogni anche essi drammatici, che parlavano di angosce di castrazione e confusioni di genere. Inizialmente non sembrava possibile nessun collegamento, nessuna restituzione. Mi misi ad ascoltare e raccogliere tutti i significati, le rappresentazioni, le immagini che Anna mi proponeva, ma anche i messaggi del corpo. Infatti, insieme all’ascolto travolgente delle catene associative che tentava faticosamente di contrastare, osservavo i mutamenti del corpo, la crescita che era ripresa, l’abbigliamento che cambiava, accompagnati da un costante tentativo di blocco delle espressioni e dei movimenti. In Pubertà e adolescenza (Carbone Tirelli, 2006) ho definito funzione di integrazione quella che in mancanza di possibili parole e interpretazioni esercita la mente del terapeuta con gli adolescenti.

Cambiamenti significativi si ebbero quando finalmente accettò di dare ascolto ad alcune mie proposte sulle sensazioni e sui sentimenti che provava. Un giorno, interrompendo il suo racconto di come durante un’uscita le ossessioni avessero invaso la relazione con le tre amiche che frequentava, le dissi che mi aveva fatto pensare che una di queste ragazze le era molto antipatica. Questa mia banale considerazione ebbe un effetto straordinario. Parve profondamente meravigliata che io potessi pensare una cosa simile, ma da allora cominciò ad accettare il mio aiuto nel valutare gli eventi anche in base ai sentimenti che suscitavano in lei, penso che alcune verbalizzazioni o interpretazioni del terapeuta abbiano la funzione di autorizzare un pensiero. La cognizione dell’ostilità e della competitività che era alla base di alcune sue relazioni ebbe un effetto liberatorio e aprì anche la strada ai complessi sentimenti che alcune situazioni e persone le provocavano. La scissione che aveva presentato nel suo primo sogno tra la paurosa presenza di rumori inquietanti e di un mostro (oggetto esterno-interno), mentre lei affettuosamente e lietamente si occupava del fratellino, iniziò a trovare composizioni e nel tempo le permise di giungere al ricordo e al racconto di alcuni eventi fortemente traumatici che avevano segnato la sua prima infanzia.

Scrive Jeammet: “Una volta instauratosi il sintomo ha una naturale propensione a oggettivarsi sempre più, a presentarsi come un dato esterno all’Io e ai suoi conflitti, si stacca dalle sue radici conflittuali e diventa “insensato” […] Ci troviamo così di fronte a ciò che mi sembra il punto centrale della psicopatologia dell’adolescenza: la naturale propensione del sintomo a sostituirsi alle relazioni oggettuali e quindi a indurre un movimento di de-oggettualizzazione” (Jeammet, 1992).

Alla luce di ciò sembra che il sintomo abbia lo scopo di creare una distanza sempre più grande dal conflitto. Nelle configurazioni ossessive, come ho cercato di mostrare col materiale clinico e come emerge nei tanti casi descritti nei lavori del Focus, il sintomo insensato si è evidentemente instaurato e ritengo che non vi sia altra strada che partire da esso, compiere a ritroso la via che dal conflitto identificatorio e relazionale ha portato l’adolescente a costruirlo in modo sempre più disincarnato e proiettivo sino ad esserne minacciosamente circondato. In una fase iniziale penso sia preferibile un affiancamento che favorisca la narrazione dell’adolescente, piuttosto che la verbalizzazione di quegli elementi transferali che mettono in primo piano lo scenario relazionale, ad eccezione dell’emergere di transfert negativi che ritengo vadano comunque interpretati. Se riusciamo così a instaurare la necessaria alleanza terapeutica, sarà possibile accedere a quelle aree conflittuali che danno conto delle configurazioni ossessive, degli scacchi e delle distorsioni delle relazione originarie, nodi che l’adolescenza impone di sciogliere per aprire la strada alla maturità, al futuro.

Riassunto

L’autore introduce la riflessione di un gruppo di colleghi dell’AIPPI sulle configurazioni ossessive in adolescenza, attraverso un breve excursus che, partendo dalla teorizzazione di Freud, si svolge nella linea di Klein, Bion, Meltzer. Si riflette sulle ricadute di tali teorie nella clinica degli adolescenti utilizzando anche i fondamentali stimoli di studiosi delle psicopatologie in adolescenza come i Laufer e tra i clinici di scuola francese di Jeammet.

Parole chiave

Configurazioni ossessive, psicoterapia in adolescenza, teorie di riferimento.

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Luisa Carbone Tirelli

Psicoterapeuta, Past President

e Socio Ordinario con funzioni di training

A.I.P.P.I. (Associazione Italiana di Psicoterapia

Psicoanalitica dell’Infanzia, dell’Adolescenza

e della Famiglia)

Indirizzo per la corrispondenza/
Address for correspondence:

Via Cardinal de Luca, 22

00196 Roma

Configurazioni ossessive in adolescenza

Introduzione

luisa carbone tirelli

Riassunto

L’autore introduce la riflessione di un gruppo di colleghi dell’AIPPI sulle configurazioni ossessive in adolescenza, attraverso un breve excursus che, partendo dalla teorizzazione di Freud, si svolge nella linea di Klein, Bion, Meltzer. Si riflette sulle ricadute di tali teorie nella clinica degli adolescenti utilizzando anche i fondamentali stimoli di studiosi delle psicopatologie in adolescenza come i Laufer e tra i clinici di scuola francese di Jeammet.

Parole chiave

Configurazioni ossessive, psicoterapia in adolescenza, teorie di riferimento.

Luisa Carbone Tirelli

Psicoterapeuta, Past President

e Socio Ordinario con funzioni di training

A.I.P.P.I. (Associazione Italiana di Psicoterapia

Psicoanalitica dell’Infanzia, dell’Adolescenza

e della Famiglia)

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