Roma
aurora gentile



Il film Roma di Alfonso Cuarón (Leone d’oro 2018 alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia) è la cronaca di un anno tumultuoso nella vita di una famiglia della classe media a Messico City, agli inizi degli anni 70. È un film incantato sull’infanzia. L’elegia dell’infanzia è già presente in altri film realizzati da Cuarón, tra cui La piccola principessa (1995), Y Tu Mama Tambien (2001), Children of Men (2006). Ma Roma è il capolavoro di Cuarón, come è stato osservato, il suo pianto dal cuore e un nuovo punto di riferimento nel suo cinema personale. È un film autobiografico che procede per lampi di memoria, come Cuarón dice in un’intervista a Variety, nel tentativo di mettere insieme dei pezzi, o forse dei resti con cui fare i conti: “La memoria è uno specchio opaco e in frantumi, ma io la intendo piuttosto come una fessura in un muro. La fessura è ciò che il dolore ha scavato nel passato. Abbiamo la tendenza a passarci sopra diversi strati di pittura, nel tentativo di riempirla. Ma resta là. Non volevo però fare qualcosa di nostalgico, ma comprendere, fare i conti col mio universo infantile”. Potremmo dire che in questo film, come per il Benjamin di “Infanzia berlinese”, il regista cerchi d’impadronirsi delle immagini infantili in cui l’esperienza del quartiere Roma, un quartiere residenziale della città, si è sedimentata in un bambino della borghesia messicana negli anni 70. Lento, contemplativo, poco dialogato, il film avanza per falde memoriali fluttuanti, per notazioni banali di vita domestica, trascese dalla sontuosità della forma che li raccoglie, una grande casa, con un grande cortile.
È anche la storia di un naufragio con lieto fine, ma l’infanzia non è sempre una sorta di naufragio che, nella maggior parte dei casi, si risolve con un lieto fine? In questa storia, la separazione dei genitori aggiunge al lutto infantile il trauma della reale perdita del padre, che abbandona la famiglia per un’altra donna. All’inizio sembra che la madre sia al centro della storia, ma la responsabilità di allevare i bambini ricade su Cleo, la cameriera, governante, cuoca, babysitter/pacificatrice. Cleo è il cuore pulsante di Roma , la lente attraverso la quale il regista proietta i suoi ricordi del passato in un presente in cui domande su razza, classe, violenza e umanità assediata irradiano in maniera molto semplice e spontanea, come nella scena iniziale in cui Cleo strofina il viale d’ingresso alla casa e l’acqua piena di sapone riflette un jet in volo sopra la sua testa, come per annodare l’ambiente politico dell’epoca, la Storia, con la piccola storia della famiglia, la tragedia familiare alla tragedia storica di un paese, mescolandoli nella meccanica del racconto.
Roma, questa infanzia messicana, avanza per piccole scene, elementi sui quali il ricordo si arresta per un poco di tempo, e trascina con sé una riflessione nel prisma dello sguardo infantile. Vediamo le vacanze nella tenuta di un amico, dove gli ospiti ascoltano la colonna sonora di Jesus Christ Superstar e uno zio amante delle armi organizza una sparatoria. I quattro bambini sono lì, ripresi tra una immagine e l’altra, che guardano e tanto più assurdi appaiono questi adulti in fila che sparano ai bordi di uno stagno vuoto. Lo sguardo dei bambini è lo sguardo dello spettatore sulla scena incongrua, in cui sparare al vuoto, per il gusto di farlo, è assolutamente incomprensibile. Cuarón non perde mai il punto di vista del bambino, ma la sequenza di spari rinvia anche a La regola del gioco  di J. Renoir (1939), e anche qui appare evocatrice e annunciatrice del dramma sociale che si profila all’orizzonte e che nessuno sembra presentire. Ancora più tardi, nel clima di una festa estiva, la natura ruggisce quando scoppia un incendio tra gli alberi del bosco che circonda la grande tenuta, è Capodanno, e le fiamme illuminano il cielo notturno rivelando adulti, bambini, cani e animali selvatici sparsi ovunque mentre gli ospiti formano una brigata con i secchi per estinguerlo. Il bisogno di sicurezza dei bambini è assicurato però da Cleo. I bambini sono con lei perché da lei emana l’ordine delle cose, il rito del sonno e della veglia, il momento della merenda e dei baci, dell’ascolto e del gioco.
Ma Cleo, anche lei, è sottoposta alla necessità della vita e degli eventi che accadono imprevisti, agli inciampi di percorso, al dolore e ai tradimenti. Resta incinta di un compagno, fanatico di arti marziali, che la respinge brutalmente quando lei glielo dice. Nessuno dei bimbi le chiede della sua pancia sempre più imponente che però non la ferma nel suo andirivieni domestico, ma restano quasi incollati a lei, soprattutto il più piccolo: in questo film, sempre, le cose che accadono attestano la visione del mondo di un bambino.
Cleo sta per acquistare una culla quando nelle strade un gruppo di soldati messicani, conosciuti come Los Halcones , paramilitari di estrema destra, abbattono gli studenti che manifestano. Cuarón mette in scena il famigerato massacro di Corpus Christi, in cui un centinaio di studenti furono uccisi dalla giunta militare, visto da una finestra al piano superiore del negozio di mobili, con una retata che è tanto mozzafiato quanto brutale. Anche qui, il massacro, le uccisioni, sorprendono per la loro violenza che ai bambini deve apparire gratuita, inspiegabile. A Cleo terrorizzata colpita dalla fatalità delle cose si rompono le acque. Accompagnata dalla anziana nonna, che non sa fare altro che pregare mentre corrono all’ospedale, partorisce una bambina nata morta. È un ricordo straziante, intollerabile e misterioso, finché Cleo comprende e dice “io non la volevo”. Ferita aperta che la porta ad ammutolirsi. Ma i bambini, che continuano ad amarla appassionatamente, registrano il suo mutismo improvviso e fanno di tutto per tirarla fuori dalla colpa e dal lutto, ma anche loro a un certo punto sembrano alla deriva di fronte alla scoperta che la perdita del padre è irrimediabile. Diventano nervosi, turbolenti, iniziano a litigare tra loro, piangono, come se l’allontanamento del padre e il mutismo di Cleo li lasciassero in preda allo sgomento, al senza aiuto. In una gita al mare, in effetti, dove la madre, Sofia, racconta ai suoi figli che il padre se n’è andato di casa per sempre, accade che due dei ragazzini si lascino trasportare dalla marea e rischino di annegare. Cleo, spaventata, pur non sapendo nuotare, accorre per salvarli, ne prende uno, ma l’altra è ancora lontana, lotta con le onde e noi come i bambini sappiamo che non sa nuotare. Minaccia estrema della morte e funzione sacrificale di un essere che socialmente è messo allo scarto. Per un attimo tutto sembra perduto. Davvero deve finire così? Ma Cleo ce la fa a riportarli a riva. Una vita contro un’altra, a rischio della propria. A questo riguardo, il bellissimo piano-sequenza rivolto al mare è di una rara potenza, tanto più che cristallizza nel racconto una tappa importante nella vita di Cleo. Questa donna in effetti è anche il punto di ancoraggio della storia, per indicare che le donne hanno portato, portano, e porteranno sempre in loro la speranza del mondo. Cleo al ritorno guarda fuori dal finestrino, i suoi occhi sono uno specchio di quanto questa famiglia sia e non sia la sua, ma i bambini le vogliono bene: Te quiero mucho, yo tambien , si dicono Cleo e il più piccolo dei fratelli.
Il film si conclude con una ultima inquadratura del cortile della casa:
“Come una madre che accosti il neonato al petto senza svegliarlo, così la vita procede per lungo tempo con i ricordi ancora gracili dell’infanzia. E nulla irrobustì i miei più della vista sui cortili con le loro buie logge”  (Walter Benjamin, Infanzia berlinese, Logge, 5).