Recensioni


Morciano D. (a cura di). Osservazione, riflessività e apprendimento nelle professioni d’aiuto. Esperienze di Work Discussion psicoanalitica. Milano: Franco Angeli, 2020. Pagine 232. Euro 28,00. E-book Euro 20,00.


Da quando la dott.ssa Gianna Polacco istituì a Roma nel 1976 il primo Corso di Studi Osservativi Psicoanalitici modello Tavistock sono stati avviati anche in Italia i Seminari di discussione di lavoro su indicazione di Martha Harris, allora Direttore del Training in Psicoterapia Infantile della Tavistock Clinic. Martha Harris, come leggiamo nel libro, aveva introdotto questo seminario alla Tavistock a partire dagli anni ‘60 ed era stata una scelta rivoluzionaria in un periodo storico caratterizzato dalla democratizzazione della conoscenza psicoanalitica e dall’idea che quanto la psicoanalisi aveva man mano scoperto potesse rivelarsi utile anche fuori dalla stanza di analisi. La Tavistock Clinic e il Tavistock Institute of Human Relations di Londra avevano l’ambizione di poter incidere sulla salute mentale attraverso diversi tipi di intervento, inclusi i luoghi di lavoro.

Nei diversi saggi del volume, seppure non sempre esplicitamente, si avverte che le teorizzazioni di W.R. Bion, gli studi di Elliot Jacques, le ricerche di Isabel Menzies Lyth, hanno offerto una prospettiva teorica e metodologica che ha permesso di individuare anche nei sistemi organizzativi e nelle istituzioni le ansie inconsce e le difese che interferiscono con il normale espletamento del lavoro. Margaret Rustin, nel capitolo ‘La Work Discussion nella tradizione psicoanalitica: origini e inquadramento teorico’, specifica: “Accanto all’idea che lavorare con singoli pazienti fosse il compito principale di uno psicoterapeuta, si andava diffondendo un acceso interesse verso i benefici che potevano derivare da quei gruppi capaci di funzionare come ‘gruppi di lavoro’ secondo la definizione di Bion. La denominazione ‘gruppi di Work Discussion’ deriva probabilmente dal lavoro di Bion volto a valorizzare il potenziale di un gruppo quando diventa capace di evitare di cadere negli ‘assunti di base’ di dipendenza, accoppiamento e attacco-fuga e di affidare, invece, alle capacità dei suoi membri lo svolgimento di un compito comune, ciò che significa diventare un ‘gruppo di lavoro’ ”(pag. 87).

Sono questi i presupposti perché assistenti sociali, educatori, insegnanti e dirigenti scolastici, psicologi, pediatri, infermieri, ecc. possano discutere il loro lavoro con bambini, adolescenti e genitori secondo la prospettiva psicoanalitica.

Sebbene siano trascorsi più di 40 anni dai primi Seminari, non avevamo finora un volume in italiano specificamente dedicato alla Work Discussion. Perciò va dato merito a Daniele Morciano di aver colmato questa mancanza. E di averlo fatto attraverso una sapiente selezione e traduzione di scritti tratti da due volumi fondamentali: Work Discussion: Learning from Reflective Practice in Work with Children and Families, curato da Jonathan Bradley e Margaret Rustin (2008), e Social Defences Against Anxiety: Explorations in a Paradigm, curato da David Armstrong e Michael Rustin (2015). 

I dodici capitoli del volume danno la possibilità di capire come funziona questo metodo attraverso i resoconti di diverse professioni, situazioni e contesti di lavoro: un’insegnante di scuola primaria che osserva un bambino riservato e particolarmente ansioso; un’educatrice d’infanzia che discute la situazione di un bambino figlio di immigrati; educatori impegnati nella costruzione di una relazione di fiducia con un bambino allontanato dalla famiglia dopo aver cambiato molte strutture; situazioni presentate da infermiere pediatriche; assistenti sociali in una comunità per minori in affidamento mentre svolgono il proprio lavoro di assessment famigliare; educatori e psicologi coinvolti in un progetto di gruppo con adolescenti ‘in messa alla prova’ in un servizio di giustizia minorile.

Morciano, nel suo utile e ampio capitolo introduttivo, elenca le ricadute formative specifiche di un’esperienza di Work Discussion così come emergono nei diversi capitoli del volume: imparare a tollerare le emozioni che si provano quando ci si sofferma a riflettere e confrontarsi sulle situazioni di lavoro che generano ansia (timore, angoscia, sofferenza, stress ecc.), evitando reazioni difensive e accorgendosi quando queste vengono attivate; accettare che non c’è un modo giusto per svolgere un compito o affrontare un problema, ma che è necessario costruire soluzioni “su misura” nelle specifiche situazioni con cui si lavora, soprattutto quando queste si presentano particolarmente complesse e refrattarie al cambiamento per via dei vissuti d’ansia che attivano; auto-osservarsi e riflettere sul proprio operato mentre lo si sta svolgendo, ovvero “fare un passo indietro” nel vivo di una situazione e considerarla da una prospettiva diversa; affinare la percezione e saper cogliere i dettagli utili a riformulare riflessivamente una pratica; giungere a una comprensione più ricca delle situazioni di lavoro che tenga conto degli elementi emotivi e inconsci che entrano in gioco; comprendere le teorie e i concetti psicoanalitici applicati nella pratica lavorativa.

Attraverso la lettura si vede che il fulcro del seminario è costituito dal materiale osservativo che ogni partecipante propone alla discussione nel gruppo e si può cogliere nelle diverse esperienze quanto Martha Harris aveva specificato: “L’obiettivo del seminario è affinare la percezione e potenziare l’esercizio dell’intuizione in modo che ne possa derivare una comprensione più ricca delle interazioni sociali descritte, sulla base delle motivazioni che vengono fuori da fonti inconsce interne. La formazione verso una maggiore sensibilità e consapevolezza è un processo graduale che porta inevitabilmente un certo grado di ansia. ‘Non accorgersi’ è un effetto dei meccanismi di difesa dal dolore psichico che si avverte in sé stessi e negli altri. Diventare più capaci di affrontare tale dolore più da vicino, insieme al rendersi conto del fatto che non c’è nessun esperto così abile da offrire soluzioni immediate, è uno dei problemi che gli studenti di questi seminari si trovano in una certa misura ad affrontare. Similmente, anche per il conduttore del seminario si tratta di un esercizio continuo di confronto con i propri sentimenti di inadeguatezza nello svolgimento del ruolo che gli viene attribuito, preoccupato di farlo al meglio delle sue possibilità sulla base della propria esperienza al fine di gettare ulteriore luce sulle situazioni presentate e discusse” (pag. 85).

Il volume dimostra la validità di questo metodo per sviluppare negli operatori capacità osservative e riflessive sulle ansie e sulle difese nello svolgimento del proprio ruolo. Va rilevato che la specifica formazione del Curatore, ricercatore in sociologia, gli ha permesso di orientarsi nella scelta dei saggi in modo da includere e farci compartecipi di due ulteriori dimensioni della Work Discussion che normalmente rimangono in ombra, ossia la Work Discussion come metodo che può essere inserito in un disegno di valutazione dei servizi o degli interventi e come metodo di ricerca qualitativa su come i fattori emotivi e inconsci incidono sul lavoro delle professioni di aiuto e sul funzionamento delle rispettive organizzazioni.

Lorenzo Iannotta


Borgogno F., Una vita cura una vita. Inizi, maturità, esiti di una vocazione. Torino: Edizioni Bollati Boringhieri, 2020. Pagine 144. Euro 24,00.

Da psicoanalista che lavora con i bambini, gli adolescenti e gli adulti, ogni volta che leggo un libro di Franco Borgogno ho la percezione che il suo discorso, clinico e teorico, mi accompagni in ciascuna delle differenti “stanze d’analisi interiori” che compongono la mia vita professionale. Nelle sue pagine, come in una visione stereoscopica, l’immagine psicoanalitica dell’infant si sovrappone a quella del soggetto adulto, creando un effetto di profondità in cui si palesano, al contempo, la vita psichica del bambino e quella di chi bambino non lo è più. Ritengo che questa qualità derivi da due ragioni strettamente collegate. La prima riguarda la ricerca, di lunga data, che l’Autore ha condotto sul trauma precoce e cumulativo; trauma da lui inteso come violazione extra-psichica delle spinte originarie ed evolutive dell’infant, che si traduce, nel corso della vita del soggetto, in organizzazione intra-psichica dissociata e alienante e che, nella stanza d’analisi, investe la coppia analitica di comunicazioni e metacomunicazioni inter-psichiche, criptiche e confondenti, che richiedono una lenta e difficile traduzione emozionale e relazionale (Borgogno, 1999; 2011). La seconda ragione, invece, è collegata alla capacità che Franco Borgogno ha di far affiorare, dalla pagina scritta, la complessa esperienza umana che avvolge l’incontro analitico con quei pazienti, dalla vita psichica violata e spenta, che chiedono all’analista, implicitamente, di essere, per loro, quell’ambiente necessario alla crescita che, quando erano infant, non hanno avuto.

Leggere questo suo ultimo libro non solo ha confermato le mie aspettative, ma, trattandosi di un’autobiografia psicoanalitica, mi ha condotto all’origine e alla formazione del suo pensiero e del suo modo di essere - dopo quarant’anni di professione - uno psicoanalista. Non si tratta, però, di un pedante libro di memorie, ma di un ensemble di quattro movimenti/capitoli, in cui i ricordi dell’Autore si trasformano - e il processo di elaborazione è esplicito - in consapevolezza intima della propria storia (un lavoro, questo, che dovrebbe essere lo scopo ultimo di ogni psicoanalisi). Poco amata da alcuni nostri colleghi, per Franco Borgogno, al contrario, la storia è una conquista psichica che ci rende presenti a noi stessi, facendoci sentire reali: “la storia - egli scrive - (al cui centro vi sono le identificazioni, una parte delle quali è inconscia) è essenziale per capire chi siamo come persone e come professionisti. E con storia intendo la storia delle relazioni familiari, della trasmissione affettiva da una generazione all’altra, la storia della cultura - anche professionale - in cui uno è cresciuto” (Borgogno, 2020, p. 9).

In aggiunta, si tratta di un libro - e questo mi sembra un punto centrale - che attraverso il racconto di una vita professionale porta il lettore a prendere contatto, dalla prospettiva della persona dell’analista, con aspetti etici ed epistemologici che non sempre sono presi nella giusta considerazione, ma che, invece, vanno al cuore della nostra disciplina. Un aspetto, questo, su cui tornerò nelle conclusioni. Andiamo, adesso, a conoscere Una vita cura una vita.

Con uno stile piano - come la sua Torino, senza salite e discese faticose o malsicure - capace di una scrittura che evoca il parlare “da persona a persona”, Franco Borgogno si racconta e, insieme a se stesso, mostra attraverso quali esperienze di vita sia approdato a quei concetti che più caratterizzano il suo modo di essere psicoanalista: l’onda lunga, psicoanalisi come percorso, spoilt children, proiezione estrattiva, analista introiettivo, omissione di soccorso, venire da lontano, rovesciamento dei ruoli, funzione di testimonianza, metamessaggi inconsci, l’importanza del “ringhio”.

Concetti, questi, che attraversano la psicoanalisi dell’adulto come quella del bambino, perché permettono di comprendere come l’infant malaccolto si manifesti e agisca dentro la stanza d’analisi, costringendo la persona dell’analista a vivere sulla propria pelle, e molto spesso a ripetere, le relazioni e le comunicazioni traumatiche subite ab initio da un Sé emergente.

Franco Borgogno, ripercorrendo gli esordi e le tappe della maturazione della sua vocazione psicoanalitica, riflettendo sulla costruzione interna del proprio modello e di come abbia assimilato i grandi autori classici, propone, con pennellate decise e vivaci, l’affresco di un periodo fecondo della psicoanalisi italiana, quello fra gli anni settanta e novanta. Il risultato è una “foto di gruppo” di prim’ordine, con nomi autorevoli della nostra tradizione psicoanalitica: fra gli italiani, Giovanni Zapparoli, Luciana Nissim Momigliano, Giuseppe Di Chiara, Stefania Manfredi Turillazzi, Roberto Speziale-Bagliacca, Franca e Alberto Meotti e altri ancora. Ma un nome, fra tutti, è giusto ricordare nelle pagine di questa rivista, quello di Dina Vallino, un’amica cara di Borgogno con la quale ha portato avanti, tramite il concetto di spoilt children, riflessioni preziose sull’origine e la cura del trauma (Borgogno e Vallino, 2005).

Come ogni racconto di formazione, anche questo incomincia con un “incontro fondante” - come lo definisce l’Autore stesso -, con un mentore “che parlava strano” e riusciva, insieme al lavoro sul passato, a infondere fiducia nel futuro. Nelle pagine che Franco Borgogno dedica al suo secondo analista, affetto e gratitudine sono ancora pulsanti e, soprattutto, lo è il ricordo di come egli, giovane adulto alla ricerca, inconscia, di qualcuno che lo potesse “vedere e riconoscere”, scoprì il significato vivificante di avere per sé, e per la prima volta, una persona che non dissimulava la propria umanità ma, al contrario, la offriva al suo giovane paziente, perché apprendesse a “utilizzare” la sua vitalità assopita.

Il paziente scoprì su se stesso che la psicoanalisi non è solo disvelare e interpretare ma, anche, una forma molto sofisticata di “apprendimento” che, ineludibilmente, richiede molto tempo: apprendimento a utilizzare le forze che la natura umana possiede, a giocare con le comunicazioni che provengono dall’inconscio, a costruire un tessuto associativo mentale che dia vigore alla propria persona. L’intesa affettiva di quella relazione analitica fece comprendere al futuro analista quanto fosse mortifero, per certi pazienti, quell’atteggiamento - considerato da molti il solo modo di fare psicoanalisi - in cui l’analista trascura il suo essere un ambiente per l’altro e, celando la sua persona, soffoca la vitalità propria e del paziente, negando a quest’ultimo quel nutrimento di umanità che sta cercando da una vita. 

Nel corso della sua formazione, l’incontro con Ferenczi - ma anche con Winnicott, Balint, Bion, Heimann, Racker - permise all’Autore di dare spessore teorico all’apprendimento vissuto “sulla propria pelle”. In effetti, il libro è anche una storia della ricerca personale sul significato e il valore clinici di quella pragmatica della comunicazione, inconscia, che accade fra i due membri della coppia analitica. Una lunga ricerca, la sua, che ha insegnato a molti di noi a vedere nel setting e nella persona dell’analista non “uno spazio vuoto adibito alle proiezioni”, ma un luogo vivo nel quale, fra i due attori, avvengono continui scambi di azioni e messaggi, consci e inconsci.

E se i maestri, quelli conosciuti sui libri e quelli conosciuti di persona, fecero comprendere all’Autore che l’analista è, in primis, un ambiente nuovo che si offre al paziente, chi rese questo concetto una realtà “in carne e ossa”, con la quale dover fare i conti in prima persona, furono quei primi pazienti, bizzarri e molto malati (alcuni ospiti dell’ospedale psichiatrico di Milano) con i quali iniziò l’apprendistato. Le vignette cliniche - raccontate con un tono mai gravoso - sono per il lettore l’occasione per vedere a lavoro, pagina dopo pagina, quello stile di analista introiettivo sul quale l’Autore ha tanto scritto in passato. Un analista, in altre parole, che sa quanto sia necessario far sostare al proprio interno, attraverso un lungo e spesso sofferto working through controtransferale, i contenuti senza nome che provengono dal paziente e che necessitano di entrare in comunicazione inconscia con la storia psichica dell’analista stesso.

Un’ultima considerazione, prima di concludere. Questo libro pone al centro la persona dell’analista: il suo essere una storia, il suo essere una realtà viva, il suo incarnare quel “quid libidico-pulsionale-personale” (come lui lo definisce, non dimenticando l’importanza della sessualità) che è vitale (nel senso che dona vita) per il paziente. È, questa, una prospettiva “ecologica” che, oltre ad avere un valore epistemologico di notevole importanza (perché riguarda i modi e i fondamenti della nostra conoscenza), richiama ciascuno di noi alle responsabilità etiche che si presentano, ineluttabili, quando, con la nostra vita, cerchiamo di curare la vita dell’altro.

Giuseppe D’Agostino

Bibliografia

Borgogno F. (1999), Psicoanalisi come percorso. Torino: Bollati Boringhieri.

Borgogno F. (2011), La signorina che faceva hara-kiri e altri saggi, Torino: Bollati Boringhieri.

Borgogno F., Vallino D. (2005), “Spoiltchildren”: un dialogo fra psicoanalisti, in F. Borgogno (2011).


Procaccio W. Il neurone bugiardo. Perché psicoanalisi e neuroscienze non hanno quasi nulla da dirsi. Napoli: Cronopio, 2019. Pagine 196. Euro 14,00.

Sin dagli inizi, quello tra neuroscienze e psicoanalisi si è rivelato un rapporto difficile, che negli ultimi decenni ha alimentato numerose controversie cliniche e teoriche. Questa problematica convivenza non contrappone solo il mondo della psicoanalisi a quello delle cosiddette scienze “dure” del cervello, ma si consuma anche internamente alla stessa pratica analitica. Nel complesso, è possibile riassumere tale rapporto dividendolo in due macrocategorie. Da un lato, vi sarebbe un tipo di approccio che potremmo definire integrativo, in cui psicoanalisi e neuroscienze tentano di compensare reciprocamente i propri limiti. I suoi sostenitori (principalmente i neuropsicoanalisti) considerano le scienze del cervello un corollario materialista indispensabile per valutare e direzionare le sorti del trattamento, ma con una significativa limitazione: il risultato di una simile mediazione interdisciplinare non è ancora riuscito a chiarire del tutto l’effettiva compatibilità tra le due discipline, destando il sospetto che, più che una naturale convergenza storica e metodologica, quella tra psicoanalisi e neuroscienze non sia altro che una convivenza forzata e non sufficientemente convincente circa gli esiti clinici. Dall’altro lato, esiste un secondo tipo di approccio, diametralmente opposto al primo, che può essere definito scettico: secondo quest’ultimo, psicoanalisi e neuroscienze non avrebbero nulla da dirsi e, piuttosto, il loro rapporto sarebbe di puro antagonismo. In questa seconda prospettiva rientrano sia i “partigiani” della psicoanalisi, che vedono nelle neuroscienze un tentativo aggressivo di uniformare il funzionamento della mente ad un compassato circuito di cause ed effetti, sia i neuroscienziati, che ritengono la psicoanalisi una pratica spudoratamente speculativa, basata su metodi suggestivi e incapace di dimostrare la validità dei propri assunti in chiave scientifica. In linea generale, entrambi gli sviluppi sembrerebbero aver abbandonato il tentativo di ripensare criticamente il rapporto tra neuroscienze e psicoanalisi: mentre infatti gli scettici rigetterebbero aprioristicamente ogni possibile forma di dialogo tra le due discipline, gli integrazionisti si limiterebbero a fornire poco più che un accostamento passivo tra di esse, che più che risolvere il problema finirebbe soltanto per reiterarlo.

Nel testo Il neurone bugiardo, Walter Procaccio propone un originale ripensamento di tale dibattito, incanalandolo verso un terzo sviluppo: come recita il sottotitolo del volume, occorre prendere atto del fatto che psicoanalisi e neuroscienze non abbiano quasi nulla da dirsi. Ma che esse non abbiano “quasi” nulla da dirsi significa che l’ipotesi circa la loro affinità non debba essere né scartata a priori, né accolta dogmaticamente: piuttosto, l’obiettivo è quello di ripensare radicalmente la legittimità e la produttività del loro rapporto. Per presentare la propria tesi, Procaccio mette in prima linea la sua stessa figura professionale, quella di psichiatra e medico che tratta i pazienti farmacologicamente, e quella di psicoanalista dedito a ciò che Anna O. (celebre caso clinico di Breuer) chiamava la talking cure, la cura della parola. In questo senso, la dura critica che il libro muove al dualismo psicoanalisi-neuroscienze si rovescia subito in un’autocritica, e cioè in un’occasione di laborioso ripensamento di cosa voglia dire vivere e lavorare quotidianamente nel mondo della salute mentale.

Il punto di partenza di Procaccio è polemico ma convincente: il recente miglioramento delle potenzialità diagnostiche non avrebbe condotto ad un progresso altrettanto evidente in campo clinico. Tutt’al contrario, l’approccio materialista e determinista delle neuroscienze avrebbe reso il confine tra malattia e guarigione, o tra il patologico e il normale, ancora più sfumato, tanto “sottile” quanto “equivoco” (p. 28). Con l’“assedio” delle neuroscienze, il paradigma medico è stato riconcepito come una “metafora bellica” (p. 169), in cui la malattia è intesa come un male da estirpare, una deviazione dal normale stato di benessere che deve essere esorcizzata ed espulsa. Questa visione pericolosamente conservativa della salute mentale, costruita sulla presunta equivalenza tra i processi psichici e il loro riflesso neuro-funzionale, deriverebbe da una celebrazione quasi “metafisica” del neurone (p. 62), divenuto sempre più protagonista delle dinamiche del trattamento. “Perché ascoltare il paziente quando possiamo dare la parola ai neuroni?”, direbbe un neuroscienziato. Del resto, per le neuroscienze, il cervello non sarebbe altro che un organo-macchina, un dispositivo puntualmente riducibile ad un’affidabile sequenza di input e output, di cause ed effetti razionali. Come sottolinea Procaccio però, il limite di un così ottimistico modello è che esso ci costringe a vedere nient’altro che la sua stessa logica: più che una lungimirante trascrizione del funzionamento della psiche, l’onnipotenza della relazione causale proposta dalle neuroscienze sarebbe una pura “finzione” (p. 120), una “distorsione” (p. 82) che accoglie solo i fatti a favore della visione deterministica della mente. Appiattendo il particolare sul generale, le neuroscienze restringono la complessità del soggetto e, pretendendo di far “parlare” i neuroni anziché i pazienti, ripropongono implicitamente un modello terapeutico sconvenientemente positivista, in cui il clinico figura come nient’altro che un “osservatore” (p. 120). Credere che il neurone parli, e che soprattutto dica la verità del paziente, significa eliminare l’aspetto più distintivo e importante evidenziato dalla psicoanalisi: il grado di imprevedibilità della cura, il fatto che ciascun trattamento sia singolare e difficilmente commensurabile agli altri.

Per Procaccio, questa insostenibile pretesa si fonda su un errore di tipo linguistico: come ben sa la psicoanalisi, il linguaggio è uno strumento bislacco, per il quale non esiste alcuna formazione specifica. Esso è qualcosa che, anziché fissarsi saldamente alle cose, può creare confusione. Contrariamente all’uomo di scienza, che tenta di compensare la sfuggevolezza del linguaggio sommando e accorpando lemmi (si pensi alla vertiginosa lunghezza dei nomi di alcune branche scientifiche, formate da un’interminabile serie di suffissi e prefissi), la grande lezione della psicoanalisi è che il linguaggio non è affatto rassicurante. Pertanto, scrive Procaccio, anziché ricorrere ad esso per cercare di fissare le cose, sarebbe eticamente più opportuno utilizzarlo come un dispositivo eterogeneo, il solo a rendere possibile “il miracolo di guardarci estranei” (p. 132).

L’aspetto più interessante del libro è che, nel complesso, Procaccio non arriva mai a proclamare l’inservibilità delle neuroscienze. Piuttosto, egli propone di ripensare un tipo di approccio che, facendo a meno della rigidità del determinismo, si orienti verso una concezione “casuale” del mentale, recuperando la dimensione clinica fondamentale dell’inatteso. Occorrerebbe pensare, nota Procaccio criticando la metafora arborea della mente di Antonio Damasio, un modello neuroscientifico che non sia ad albero, ma “sinfonico” o “a rete” (p. 102), in cui i processi mentali non si susseguono secondo logiche gerarchiche, sequenziali, ma attraverso la “sussunzione”, e cioè la “retroazione di tutto su tutto” (p. 103). Il beneficio di una simile visione sarebbe quantomeno duplice: in primo luogo, essa riuscirebbe a rispecchiare - senza travisare - l’obiettivo della psicoanalisi di trasformare la domanda del paziente da una prospettiva neurologica; infine, ciò permetterebbe anche, e soprattutto, di restituirci un tipo di approccio alla salute non normativo, in cui il trattamento non procede come la “soluzione di un enigma”, ma attraverso uno stato di “interrogazione permanente” (p. 166).

Gioele P. Cima