Germania anno zero

Regia di Roberto Rossellini (1948)

aurora gentile

Germania anno zero è un film del 1948 diretto da Roberto Rossellini, terza pellicola della cosiddetta “trilogia della guerra”, dopo Roma città aperta e Paisà. È ambientato nella Berlino occupata dagli Alleati, appena un anno dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, quasi totalmente distrutta dopo sei anni di conflitto. Il protagonista è interpretato da un ragazzino di undici anni, scelto per la sua somiglianza con Romano, il figlio che Rossellini ha perso da poco, prematuramente scomparso a nove anni nel 1946, e alla cui memoria il film è dedicato.

Siamo tra le macerie di un paese distrutto. Resti del crollo di un regime e di un passato che ingombra, anche nel senso letterale del termine, il presente. Le rovine tedesche del dopoguerra appaiono soprattutto come un ambiente di desolazione e di deprivazione per i milioni di individui costretti a sopravvivere. Tra le rovine giocano i bambini: per Rossellini però queste sembrano spogliate di qualsiasi significato metaforico, per dirla semplicemente appaiono come “fatti”, in un certo senso queste immagini parlano da sole, il regista sembra filmarle come una realtà il cui significato non è dato a priori, ma si svela progressivamente quasi per caso, mantenendo lo spettatore in uno stato di disorientamento.

In effetti, piuttosto che rappresentare un reale già decifrato, il film sembra mirare a un reale da decifrare, sempre ambiguo, e forse per questo il piano-sequenza, che consiste nella modulazione di un segmento narrativo autonomo, attraverso una sola ripresa, senza soluzione di continuità e in genere piuttosto lungo, tende a sostituire la tecnica del montaggio delle rappresentazioni.

In breve la trama. Dopo la capitolazione tedesca, la famiglia Köhler è costretta a condividere con quattro altri affittuari un appartamento troppo piccolo. Il padre, vedovo e malato, vive lì con i suoi tre figli. Eva si occupa della casa durante il giorno e accudisce il padre, di notte frequenta i bar, dove le amiche si prostituiscono per contribuire al bilancio familiare. Il primogenito, Karl-Heinz, soldato della Wehrmacht durante la guerra, si nasconde nell’appartamento perché teme di essere arrestato. Il più piccolo, Edmund, è confrontato con le necessità della sopravvivenza. Cerca di aiutare la famiglia con piccoli lavoretti. La situazione precipita quando Edmund, in cerca d’aiuto, si rivolge a un suo vecchio professore nazista, probabilmente un pedofilo come alcuni suoi amici, che però gli spiega che chi non riesce a sopravvivere deve essere eliminato perché i giovani e i forti possano andare avanti. Il regista non illumina lo spettatore su come questi discorsi seducano e penetrino nella psiche del piccolo Edmund e sulla quota di enigmaticità intraducibile che essi contengono. Ma in un insospettato passaggio all’atto, la notte stessa Edmund avvelena il padre malato che invoca la morte per non essere di peso sulla famiglia.

Nell’ultima sequenza del film Edmund, che ha applicato ciecamente e da buon allievo i precetti eugenisti del suo antico maestro di scuola, attraversa la città in rovina, chissà cercando un qualche appoggio al deserto in cui vive, ma non sappiamo se cerca un altro che sia familiare, un volto amico. Per lunghi minuti, la camera segue il ragazzino, isolato, tagliato via dal mondo, che si arrampica su un palazzo distrutto e che gioca a nascondino con la sua ombra, sensazioni corporee più che emozioni, forme parziali e ambigue in primo piano come per valorizzare l’assenza di pensiero e parole. Poi Edmund, senza gridare, si passa la mano davanti agli occhi, forse per proteggersi dal sole o per scacciare il sonno che lo prende, e salta nel vuoto. Una passante si accorge del suo corpo sulla strada e mentre se lo porta sulle ginocchia come in una pietà (di cui Città aperta ci aveva già offerto una immagine), la camera di Rossellini inquadra un tram che passa e la vita che continua. Per comprendere forse in cosa questo film si differenzia da altri film sull’infanzia del secondo dopo-guerra, possiamo comparare la scena della morte di Edmund con quella equivalente ripresa nel film di Gerhard Lamprecht, Irgenwdo in Berlin (Somewhere in Berlin, 1946), in cui è rappresentato il suicidio di un altro undicenne, Willi. Anche qui siamo a Berlino, poco dopo la fine della seconda guerra mondiale. La città è in rovina, e anche qui i bambini utilizzano il paesaggio di detriti come una grande area di gioco, dove possono giocare a nascondino. Sono le stesse scene che oggi vediamo nel cinema libanese, o siriano. Giocano alla guerra con fuochi d’artificio, che scambiano contro il cibo rubato al mercante nero Birke. Tra i bambini ci sono Gustav Iller, di undici anni, che attende con sua madre il ritorno del padre, e Willi, della stessa età, che ha perduto i genitori durante la guerra. I due ragazzini sono amici e complici nel furto di cibo.

Gustav e sua madre sperano nel ritorno del padre, che il loro grande garage possa essere ricostruito e che infine una nuova partenza potrà essere creata. Ma il padre di Iller ritorna dalla prigionia, e si comprende che non è capace né pronto a un nuovo inizio. Diventa così oggetto del dileggio dei vicini e degli altri bambini. Soltanto i due piccoli amici giocano con lui e cercano di sostenerlo. Willi in particolare si dà da fare con i suoi furti per aiutare la famiglia dell’amico, finché è scoperto e subisce la collera di Birke. Willi scappa, ma quando il gruppo di ragazzini lo tratta da vigliacco, per provare il suo coraggio, inizia a scalare una casa in rovina. Inciampa e cade, morendo poco tempo dopo. Gli altri bambini però reagiscono con dolore e anche gli adulti sono strappati alla loro apatia e i genitori di Iller iniziano la ricostruzione del garage. 

In Irgendwo in Berlin, sono gli adulti a guardare i bambini, nel film di Rossellini, il punto di vista riprodotto è quello di Edmund: egli ascolta (il fischio del tram, sua sorella che grida il suo nome) e vede (una facciata di un palazzo crollata, il feretro del padre che viene trasportato), e noi vediamo soltanto lui. Ma il suo viso impenetrabile, estraneo, distante senza espressione, non rivela nulla delle sue intenzioni, mettendo in scacco le possibilità dello spettatore d’identificarsi con il negativo della storia, pur continuando a investirla nella speranza di una soluzione benigna. Non c’è una riconciliazione finale che potrebbe far strada a un’idea nuova, a un percorso di speranza. Non si sopravvive all’orrore, sembra dirci il regista.

La caduta di Willi, ben più drammatica, non sorprende “davvero” nessuno, in parte per il taglio e l’inquadratura delle immagini: il pathos che lo accompagna risponde ai codici della rappresentazione classica del cinema narrativo, tanto più che la morte del ragazzo non sarà stata inutile. In Germania anno zero, nessun pathos, nessuna redenzione. Edmund muore di ciò che vede, cioè il carattere implacabile, intollerabile del reale, che resiste al potere dell’interpretazione e rinvia a un fallimento traduttivo e trasformativo di ciò che accade. Il personaggio del bambino non è portatore come in Ladri di biciclette di De Sica di una poesia che piuttosto che entrare in tensione con la dura realtà potrebbe iniettarsi in essa e vivificarla. In Germania anno zero siamo di fronte alla perdita radicale di fiducia di base in un mondo sicuro. La trama riconciliatrice d’Irgendwo, in cui bambini e genitori mano nella mano ricostruiscono la Germania del futuro, è a mille miglia lontana dalla solitudine, la disperazione e il pessimismo fondatore del film di Rossellini.

Possiamo pensare che in questo film Rossellini, che a sua volta vive anche il dramma privato della perdita del figlio, tenti di dare forma a un tempo divenuto immobile, a un presente afasico senza un dopo, che renderebbe possibile la prima trasformazione in après-coup del trauma, vale a dire al trattamento immaginario, simbolico del reale, consentendo l’uscita dal traumatismo.

L’originalità profonda di Rossellini è di avere deliberatamente respinto qualsiasi ricorso alla simpatia sentimentale, qualsiasi concessione all’antropomorfismo. Il suo bambino ha undici anni, Rossellini rinuncia a rappresentare attraverso lo scenario e il gioco ciò che sono le sue fantasie segrete, giacché se sappiamo qualcosa su ciò che pensa e sente, non è mai attraverso dei segni direttamente leggibili sul suo viso, e neanche attraverso il suo comportamento, possiamo comprenderlo soltanto attraverso delle sovrapposizioni e congetture.

In tutti questi film i bambini sono per così dire la chiave con cui ogni regista, con i suoi specifici mezzi tecnici e estetici, cerca di accostare la realtà di una società che negli anni quaranta doveva ricostruirsi o fronteggiare un totalitarismo che lasciava poco spazio alla prospettiva di un’altra realtà, e oggi deve resistere alla guerra condotta da regimi ugualmente spietati. Possiamo pensare allora che l’infanzia sia messa in scena come testimone, al tempo stesso potente e impotente, dell’orrore della guerra e della malattia di tutto un popolo che vive un blocco paralizzante di esperienze cui manca la parola e quindi la possibilità di un’esperienza di dolore, di lutto e di riparazione.

Rivedere questo film può essere utile in questi nostri tempi di pandemia, in cui tutte le sfere dell’esistenza sono caratterizzate dall’instabilità e dall’incertezza, perché esso ci parla anche oggi di un’infanzia esposta al dramma della guerra e a realtà traumatiche collettive, ma soprattutto dell’assenza di parola in cui possono essere lasciati i nostri bambini di fronte alla crudeltà del mondo reale.