Omogenitorialità: un contributo

da un’ottica psicoanalitica


daniela lucarelli




La ricerca sulla famiglia ha ormai, da tempo, cominciato a fare i conti con l’eterogeneità esplicita. Sarebbe, tuttavia, un errore credere che nel passato ci sia stata “la famiglia”, mentre attualmente non si sa bene che cosa ci sia, piuttosto potremmo dire che non c’è mai stata “una forma canonica” di famiglia come unica forma di famiglia. Possiamo, infatti, convenire che questa istituzione sia tra le più mutevoli e adattive della storia umana, tale da poter perdurare nel tempo attraversando sistemi sociali diversi.

Tuttavia, estesa o nucleare, tradizionale o meno, idealizzata o terrificante, nelle sue molteplici versioni, l’importanza della famiglia nell’organizzazione sociale è stata massima. Sarebbe impossibile sminuire l’importanza della famiglia nelle storie delle vite degli individui (almeno nel mondo occidentale). Dall’ antichità fino ad oggi, da sempre, la famiglia è stata il nido in cui siamo cresciuti, il rifugio in cui sceglieremmo di morire, la casa in cui torniamo quando il pericolo è in agguato. Per quanto ne sappiamo, una famiglia è stata comunque presente, in varie forme, nelle società in cui la nostra civiltà riconosce i suoi antecedenti e la sua genealogia.

La famiglia costituisce il primo ordine significativo, il primo codice, con le sue soddisfazioni segrete, lo spazio in cui le regole dei legami tra i soggetti, della relazione tra padre e madre, fratelli e sorelle, delle incomprensioni che circolano, è di solito il primo universo del soggetto, il suo fondamento primario.

Assistiamo al fatto che le nuove configurazioni della famiglia e della coppia, insieme ai cambiamenti che le moderne tecnologie permettono in termini di riproduzione, sembrano delineare, nel corso del ventunesimo secolo, quella che è stata definita come una vera e propria mutazione di civiltà. Uno sconvolgimento che attraversa la continuità del mondo occidentale e scuote non solo la famiglia ma anche il nostro attuale modo di intendere i diritti del bambino, i diritti alla genitorialità.

Se qualche decennio fa una coppia genitoriale valida nella nostra cultura era una coppia eterosessuale, oggi non è più lo stesso e in molti paesi le coppie di genitori dello stesso sesso sono assolutamente legali.

Possiamo essere consultati da famiglie “monoparentali”, “ricostituite”, “tradizionali”, “omogenitoriali “ e molti altri tipi di famiglie.

Proprio l’aspettativa ancora presente che ciò che è familiare possa rimanere uguale a se stesso ci rende forse più difficile comprendere e accettare le inevitabili difficoltà dei cambiamenti nell’ambito di quel familiare rappresentato dalla istituzione famiglia. Quella che appare come crisi della famiglia è in verità la profonda trasformazione di aspetti consolidati, anch’essi storicamente contingenti, ma a noi noti e per l’appunto “familiari”.

I numerosi cambiamenti in atto possono, talvolta, acquistare anche una valenza traumatica che genera sofferenza psichica, per l’elemento “nuovo”, mai prima esperito, che introducono, ma anche a causa della loro particolare rapidità, rendendone difficile l’assimilazione e ostacolandone la rappresentabilità e l’elaborazione.

Potremmo chiederci: cosa intendiamo per famiglia oggi, nell’anno 2022?

I fenomeni principali che quotidianamente ci interrogano quali i divorzi, le seconde o terze unioni, le adozioni, le famiglie multietniche, le unioni omosessuali, la procreazione medicalmente assistita, ci possono talvolta suscitare una sorta di disorientamento per la difficoltà a reperire nella nostra mente le coordinate necessarie a collocare nell’ambito dell’esperienza qualcosa che può presentare, per noi, il carattere dell’estraneità. Si tratta di nuovi stili di vita e di nuove forme di convivenza che rivendicano per sé la qualifica di famiglia (Lucarelli, Tavazza, 2005).

Il disorientamento dovrebbe poter accompagnare la nostra osservazione in questo campo d’indagine senza tramutarsi difensivamente né in una forma pregiudiziale, nel senso di un giudizio preliminare, né in una forma acritica, nel senso di una semplice adesione alla dimensione fenomenica: in entrambi i casi rendendo impossibile l’esplorazione e la trasformazione del “conosciuto non pensato”. Ciò che si trasforma intorno a noi ci chiama ad una problematizzazione del nostro sapere.

Dobbiamo, quindi, anche chiederci quale influenza hanno la realtà e i suoi cambiamenti nell’orientare il pensiero psicoanalitico? I significativi mutamenti che registriamo nella sfera della famiglia e quindi anche della sessualità e della procreazione “ci interrogano sulla validità e sulle capacità delle teorie fino a qui elaborate a leggerli e a comprenderli e ci interrogano sulle ricadute che le novità in corso hanno sulle nostre stesse teorie” (Marion, 2017, p.156).

Rachel Blass (2016), si chiedeva se la natura del pensiero e della prassi psicoanalitica (soprattutto in riferimento alla sessualità) sia determinata dagli sviluppi extra-analitici, sociali e culturali. È in grado la psicoanalisi di accogliere all’interno del suo apparato teorico-clinico il nuovo che avanza? Come elaborare la discrepanza tra i processi di simbolizzazione e il ritmo incalzante che caratterizza i nuovi avvenimenti?

Sono domande a cui iniziare a cercare delle risposte.

Questo Focus, incentrato sul tema delle “Configurazioni familiari del nostro tempo”, conferma l’importanza del lavoro che deve essere svolto attualmente nel campo della psicoanalisi, nel tentativo non solo di cercare nuove risposte alle nuove situazioni della realtà, ma prima ancora di porre rimedio alla patologizzazione degli individui, delle coppie e delle famiglie delle minoranze sessuali e di genere avvenuta nel corso di molti decenni di pratica clinica. Nonostante la lotta di Freud per integrare le sue idee sul fatto che siamo tutti intrinsecamente bisessuali (1920, 141-.166), all’interno delle potenti forze della eteronormatività, la successiva colonizzazione del suo pensiero ha portato molti psicoanalisti ad avere opinioni – come sottolineato da Giffen (2017) – in base alle quali l’omosessualità è stata vista come un arresto dello sviluppo (Segal, 1990), la bisessualità come una regressione immatura (Rapoport, 2009) e la transessualità come un indicatore di struttura psicotica (Millot, 1990). Non sorprende, quindi, che il pensiero e la pratica psicoanalitica riguardo al genere e alla sessualità si siano trovati sotto una crescente vigilanza e che nel 1991 l’American Psychoanalytic Association sia stata costretta a rilasciare una dichiarazione in cui deplorava la discriminazione pubblica e privata contro individui maschi e femmine di orientamento omosessuale. Allo stesso modo, sempre negli stessi anni, anche l’IPA ha approvato un documento nel quale si dichiarava la non discriminazione verso gli omosessuali nei criteri di selezione degli istituti di formazione e, nel 2011, il British Psychoanalytic Council ha fatto una propria dichiarazione opponendosi alla discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale e rifiutando di accettare un orientamento omosessuale come prova di un disturbo della mente e dello sviluppo. In ambito medico psichiatrico si è giunti agli anni settanta perché il DSM cancellasse l’omosessualità tra le perversioni. Eppure, nella loro prefazione ad un volume edito di recente, Waddell et al. (2020) attirano l’attenzione sul fatto che mentre viviamo, sempre più, all’interno di culture politiche e sociali il cui linguaggio ufficiale si oppone alla discriminazione e celebra la differenza, gli effetti del pregiudizio continuano ad essere sentiti in modi sottili e più espliciti da coloro la cui sessualità e il cui genere non rientrano nelle norme eterosessuali. Il campo è attivamente impegnato in un cruciale e doloroso processo di elaborazione dei conflitti interni per quanto riguarda il fallimento nell’impegnarsi pienamente e rispettosamente verso il genere e la sessualità, un processo che va proprio al cuore del pensiero e della pratica psicoanalitica. Il numero crescente di pubblicazioni negli ultimi anni fornisce una prova del fatto che il pensiero e l’attenzione si stanno ora concentrando sullo sviluppo della teoria e della clinica per quanto riguarda la psicoanalisi con individui, coppie e famiglie omosessuali. Le recenti pubblicazioni indicano la direzione verso la quale la psicoanalisi deve muoversi se vuole recuperare con questi pazienti la propria considerazione di un pensiero e di una pratica clinica all’avanguardia. Dopo tutto la psicoanalisi ha una lunga storia di interrogativi profondi e difficili e non deve avere il timore di continuare a interrogarsi. Infatti gli individui, le coppie e le famiglie LGBTQ cercano l’aiuto della psicoanalisi proprio a causa di un profondo disagio, angoscia e difficoltà (Mc Cann, 2020). 

Prima di affrontare più specificamente il tema dell’omogenitorialità penso che possa essere utile soffermarci brevemente sul tema dell’identità di genere, dell’omosessualità, facendo anche alcuni accenni alle tematiche della psicosessualità e del complesso edipico.

Attualmente osserviamo un aumento delle problematiche connesse con la definizione dell’identità di genere e di una certa ambiguità. Freud scriveva ancora (OSF, X, p. 595, nota 2): “Siamo abituati a dire: ogni essere umano rivela moti pulsionali, bisogni, attributi tanto maschili quanto femminili”.

Nella nostra società l’attenuarsi della distinzione dell’identità di genere è un tema presente. Scrive Nicolò (2016, p.187): “L’anatomia non sembra essere più il destino. Ognuno si costruisce da sé il proprio idioma di genere”, mettendo in luce, riguardo alla trasformazione della famiglia, la perdita della sua verticalità a favore della fratria. E ancora (ibidem, p.191): “J. Mitchell (2004) affermava che il perpetuarsi di una sessualità polimorfo perversa e non riproduttiva ha luogo quando le relazioni laterali e non verticali diventano importanti cominciando dal rapporto tra i fratelli nel contesto di pari o più tardi di affini”.

Per andare avanti nelle nostre riflessioni ricordiamo, inoltre, che Stoller (1968) distinse il sesso dal genere. Egli conferì al sesso una connotazione biologica e al genere una connotazione prevalentemente psicologica e culturale. Affermava che l’identità di genere non dipendesse solo dall’anatomia, ma fosse condizionata dall’ambiente: i genitori, i fratelli e il contesto.

Per quel che riguarda l’omosessualità, sappiamo bene che sebbene sia stata presente in tutti i tempi, in tutte le culture, in tutte le età, la sua collocazione teorica è invece molto variabile e riflette più la storia dei pregiudizi che quella della scienza (Argentieri, 2010, p.4).

Nell’arco di una generazione la mentalità corrente e la condizione sociale degli omosessuali sono visibilmente mutate, anche se non vi è ancora una trasformazione profonda. Potremmo dire che nella società contemporanea vi sia un andamento discontinuo e incoerente rispetto all’identità sessuale e di genere. Tale situazione sembra poter comunque segnalare l’importanza cruciale che continua ad avere la sessualità nella vita umana.

Forse può valere la pena ricordare che Freud, sempre nel 1920 (OSF, IX, p.165), aggiungeva: “La psicoanalisi non è chiamata a risolvere il problema dell’omosessualità. Essa deve accontentarsi di rendere palesi i meccanismi psichici che sono stati determinanti per la scelta oggettuale…” E, più tardi, nel 1937 (OSF, XI, p.526), scriveva che, a partire dall’universale bisessualità, l’orientamento sessuale di ciascuno avviene per rinuncia a una parte di sé, per rimozione del suo contrario. La penosa conflittualità interiore, che nella maggior parte dei casi conduce alla supremazia di una parte sull’altra, non è però mai definitiva e totale, per lo meno a livello delle fantasie inconsce.

Sembra che oggi la psicoanalisi debba ancora riconquistare un suo spazio teorico-clinico autonomo per offrire un orientamento che si sottragga alla confusione e alle opposte ideologie.

Recentemente sono apparsi vari lavori (Lemma, Lynch, 2015), che sembrano rappresentare un tentativo di scongelare alcuni assunti psicoanalitici che, partendo da una comprensione normativa della risoluzione del complesso edipico, hanno deprivato la sessualità della sua storicità, rinnegando le sue qualità fluide, enigmatiche ed ego-aliene. Questi autori mettono in luce l’importanza di disinvestire la sessualità dell’illusione di fissità e normalità e reinvestirla con la centralità e la plasticità già ben comprese da Freud, ma poi perse con la psicologia dell’Io americana e della tradizione britannica delle relazioni oggettuali.

Secondo questi autori il pensiero psicoanalitico nel campo dell’omosessualità non si è sviluppato come sarebbe stato necessario. Infatti l’orientamento sessuale non è intrinsecamente allineato con l’identità di genere e capire la sessualità significa esplorare il significato soggettivo, la storia, i conflitti, i gradienti attivi in ogni sviluppo psicosessuale individuale, quale che sia il sesso e il genere dei soggetti e degli oggetti di desiderio.

Questo cambiamento di prospettiva dissolve la tradizionale visione binaria della sessualità e permette di esplorare la dimensione dell’alterità nel desiderio al di là della nozione biologica di differenza sessuata in cui a lungo è stata collocata.



La psicosessualità 


Nel tempo, attraverso la formulazione della psicosessualità, la psicoanalisi ci ha mostrato come la sessualità umana sia irriducibile ad un bisogno istintuale e come nelle sue manifestazioni ed espressioni siano coinvolti i processi di costituzione identitaria soggettiva: i percorsi identificativi, la capacità di stabilire legami e sviluppare pensiero, l’istituzione della dimensione temporale. Essa è attraversata da fantasie, fantasmi, fissazioni, erotismo, pulsioni parziali e genitalità. La psicosessualità include aspetti chiamati maschili e femminili, attivi e passivi, indipendentemente dal sesso biologico (Marion, 2017, pp.45-68).

La psicosessualità nella psicoanalisi contemporanea del XXI secolo, afferma Eva Rotemberg (2020, pp.116-138), sta abbandonando il binarismo legato al sesso biologico, anche se ci sono molte controversie. L’apertura che permette di discostarsi dal binarismo, sostenuta dalla psicosessualità che si fonda nella realtà psichica, ci permette di pensare le nuove situazioni della clinica attuale. “Potremmo chiamarla psicosessualità complessa?”, si chiede la Rotemberg. Ricordiamo che la psicosessualità, già secondo Freud (1905), non è né eterosessuale, né omosessuale: è polimorfa e bisessuale.



L’Edipo


“Il mito di Edipo che ha costituito il nucleo del pensiero psicoanalitico rappresenta un’invariante inconscia? Oppure ci troviamo di fronte a cambiamenti strutturali che modificano la nostra stessa natura?”, si chiedeva Spiwakov nel 2014 (p.146).

In passato, gli psicoanalisti hanno interpretato il concetto freudiano del complesso di Edipo in un modo abbastanza ristretto, contribuendo in tal modo anche ad un’immagine negativa dell’omosessualità: o il suo risultato era “positivo” o “negativo” e questo significava rispettivamente “eterosessualità” e “omosessualità”. Da un punto di vista psicoanalitico classico l’identificazione con il genitore dello stesso sesso segue la rinuncia a possedere il genitore di sesso opposto ed è considerata l’apice della sessualità infantile e il presupposto per il conseguente sviluppo dell’eterosessualità adulta, mentre l’omosessualità è vista come risultante di una regressione o una fissazione ad uno stadio o a modalità di esperienza temporale che precedono la dissoluzione del complesso di Edipo e, alla fine, come un fallimento della rivalità edipica, che porta all’identificazione con il genitore del sesso opposto. Ma Freud stesso aveva sottolineato nelle sue opere successive che le cose erano molto più complicate di quanto aveva pensato inizialmente e più tardi riconsiderò la sua prima formulazione del complesso di Edipo evidenziando – come abbiamo visto – il potenziale di un orientamento bisessuale in tutti gli esseri umani. È l’elemento di complicazione introdotto dalla bisessualità che rende così difficile avere una visione chiara dei fatti in relazione alle prime scelte e identificazioni oggettuali, e ancora più difficile descriverle in modo perspicace. 

Laplanche e Pontalis, (1967, p.85), portando avanti questo punto di vista, affermano che “il complesso edipico ‘completo’ consiste nel fatto che, al di là del complesso ‘positivo’ e ‘negativo’, si osserva tutta una serie di casi misti in cui queste due forme coesistono in un rapporto dialettico”.

Nel 2014 Susann Heneen-Wolff, riprendendo questi temi, scriveva (pp.147-158): “Solo ad una lettura superficiale e parziale della teoria del complesso di Edipo si può pensare che sia ovvio che il ragazzo si identifichi con il padre mentre la ragazza con la madre in modo da arrivare ad una scelta oggettuale eterosessuale e che, inoltre, questa dinamica sia ‘migliore’ di qualsiasi altro risultato”. Inoltre riteneva che, prima di giungere all’emergere di tendenze o orientamenti eterosessuali o omosessuali, al bambino non importasse molto il sesso di chi lo accudisce: “il bambino non è nemmeno consapevole dell’esistenza di sessi diversi. Può distinguere rapidamente la voce di mamma e papà, ma questo non significa che sappia cosa sia maschile e cosa femminile: il bambino ama entrambi. Questa è la ragione per cui Freud parla di una bisessualità originaria di ogni essere umano: l’impeto erotico e amoroso, come le identificazioni del bambino, non fanno caso all’appartenenza sessuale degli oggetti di investimento primario: la capacità bisessuale – di desiderare, amare, potersi identificare con entrambi i sessi – appartiene interamente alla vita psichica del soggetto e alle forze e alle vicissitudini che plasmano la singolarità di una storia specifica. La bisessualità originaria rimane responsabile delle tracce omosessuali nell’esperienza di ogni individuo.”

Sempre la Heneen-Wolff aggiunge (ibidem): “I pregiudizi della psicoanalisi (e non solo) sulla possibile qualità delle relazioni omosessuali sono stati basati sulla nozione di genitalità. L’esperienza omosessuale era ritenuta non genitale ma pregenitale. Ma nessuno ha spiegato perché dovrebbe essere così. Freud definiva l’amore come emerso dall’incontro della corrente ‘affettiva’ e da quella quella ‘sensuale’, e sarebbe difficile pensare che gli omosessuali siano esclusi da questa esperienza.”

Se il complesso di Edipo, come suggerisce Laplanche (2006), può essere inteso come una narrazione culturale, universale, prevalentemente meta-narrativa, che dura solo per un certo tempo, al fine di organizzare la nostra vita fantasmatica e strutturare l’inconscio, allora dobbiamo prendere in considerazione – come suggerisce Kahn (2004) – che le mentalità sono le forme che prende il compromesso tra le esigenze pulsionali e le necessità culturali. Queste necessità culturali sono soggette a grandi cambiamenti. Numerosi autori contemporanei preferiscono parlare oggi non di “omosessualità” al singolare, ma al plurale, sottolineando così che le loro caratteristiche sono lontane dall’essere uniformi e univoche.

Nel tempo il tema di Edipo è andato incontro ad una espansione di significati e da modello sessuale è diventato modello di conoscenza, con l’attenzione rivolta al significato della triangolazione edipica nello sviluppo delle funzioni mentali e come metodo della conoscenza psicoanalitica.

Probabilmente, infatti, il complesso di Edipo non deve essere inteso solo nel senso esteriore e descrittivo di un nucleo formato da padre, madre e figlio/a nel quale il piccolo odia il genitore dello stesso sesso e ama quello del sesso opposto. Argentieri nel 2010 scrive: “Bisogna pensare l’Edipo come un modello evolutivo nel quale si possono individuare le varianti storiche, ‘un crocevia’ che comunque si propone, quali che siano le organizzazioni sociali e culturali della famiglia di ogni tempo e paese, che ciascuno risolve – o non risolve- secondo le sue risorse e la sua storia” (p.107).

A questo riguardo mi sembra interessante ricordare quanto dice la Faimberg (1993) a proposito di quella che lei chiama “configurazione edipica”, definizione con cui intende non solo la relazione del bambino con i genitori, ma anche quella dei genitori con il bambino. Secondo la Faimberg il concetto freudiano di “complesso di Edipo” non spiega totalmente la natura e la storia degli oggetti edipici. Nel mito, infatti, Laio sta all’origine del destino predeterminato di Edipo. Nel decidere della vita e della morte del figlio, prima della sua nascita, egli si offre come paradigma di padre narcisistico che non riconosce l’alterità del figlio.

Un altro aspetto importante su cui la Faimberg pone l’accento è quello della “menzogna” o negazione. Infatti Laio detiene il segreto sulle origini di Edipo e sappiamo che quando sul romanzo familiare “pesano dei segreti di filiazione, la fiducia nella verità psichica potrà risultarne distrutta e la configurazione edipica essenziale che struttura la mente, pervertita” (Faimberg, 1993, p.196).

Per la Faimberg, il significato autentico di questa configurazione andrebbe, quindi, ben al di là dei sentimenti di amore e odio verso il genitore dello stesso sesso e quello di sesso diverso, ma implicherebbe il riconoscimento dell’alterità, il sentirsi amati, la rivalità e l’onnipotenza narcisistiche, la presenza o meno di segreti di filiazione, la verità psichica, l’arrivare a riconoscere le due grandi differenze della vita, quella dei generi e quella delle generazioni.

Quello che il bambino deve, tra l’altro, progressivamente comprendere – sia cognitivamente che affettivamente – è che ci sono esperienze (come la sessualità) dalle quali è escluso. Attraverso il riconoscimento delle differenze si riconosce il proprio limite, si tollera la ferita narcisistica di non poter essere e avere tutto, e, al tempo stesso, si riconosce l’esistenza dell’altro come diverso da sé.

Che l’Edipo cessi di svolgere nella società il ruolo fondante che gli è stato conferito fino ad ora, ci obbliga a riflettere. Dobbiamo pensare che le nuove matrici per la costituzione del soggetto daranno origine a nuovi profili di organizzazione della personalità, a nuovi modi di essere?



Le coppie omogenitoriali


Per venire al nucleo tematico di questo Focus, una prima difficoltà di approfondimento su questa tematica è stata determinata dal fatto che, fino a poco tempo fa, le esperienze cliniche che coinvolgessero i figli di coppie omogenitoriali fossero limitate, un’altra difficoltà è derivata dalla necessità che potessero essere abbandonate alcune convinzioni ancora molto presenti come quella secondo la quale l’omosessualità era classificata come una perversione, come abbiamo già detto.

Nell’ambito delle scienze umane i lavori sull’omogenitorialità hanno coinvolto fino ad ora prevalentemente gli antropologi, i sociologi, i giuristi, gli psicologi dello sviluppo, ma i lavori ad orientamento psicoanalitico sono ancora relativamente poco numerosi. 

Il punto più problematico per le coppie dello stesso sesso diventa quello della genitorialità rispetto alla quale la conflittualità sociale segnala un fortissimo incremento, soprattutto nel caso del ricorso alla procreazione assistita (altri casi: affidamento di figli nati da precedenti unioni eterosessuali, adozioni).

Tuttavia, nell’affrontare questa tematica, dobbiamo tenere conto che – secondo uno studio del 1994 (Roudinesco) nel continente americano vi erano all’epoca da uno a cinque milioni di madri lesbiche, da uno a tre milioni di padri gay e da sei a quattordici milioni di bambini cresciuti da genitori omosessuali. Non si trattava, quindi, nemmeno allora, di una popolazione trascurabile.

Come si legge in Patterson (1992), nel 1995 l’Associazione Psichiatrica Americana ha emesso il suo parere sui figli di genitori omosessuali affermando che la salute mentale e lo sviluppo dei bambini cresciuti in famiglie con genitori dello stesso sesso non è risultato compromesso. Nel complesso, la maggior parte delle ricerche sulla genitorialità omosessuale dimostra che i bambini che crescono con figure genitoriali lesbiche o gay non sono diversi dai bambini che crescono con genitori eterosessuali in termini di adattamento psicologico o di sviluppo di genere. Sembrerebbe, quindi, che il genere e l’orientamento sessuale del genitore siano molto meno importanti per il benessere psicologico dei bambini rispetto alla qualità delle relazioni familiari stesse. Sempre Patterson (ibidem), insistendo ulteriormente su questo punto, suggerisce che né l’orientamento sessuale dei genitori né il loro genere fanno la differenza sull’identità di genere dei bambini, sul comportamento nei ruoli di genere o sul loro orientamento sessuale e, semmai, sembra che i bambini che crescono con genitori dello stesso sesso siano più aperti e sembrano essere più sicuri nell’esprimere il loro orientamento sessuale, qualunque esso sia.

La ricerca – anche quella meglio condotta – non può anticipare, in questi ambiti, le risposte che la vita con il tempo darà. Probabilmente dovremo aspettare diverse generazioni per avere delle risposte attendibili.

Le preoccupazioni che più spesso vengono espresse riguardo alla scelta dell’omogenitorialità riguardano i disagi a cui sarebbero esposti i bambini a causa delle discriminazioni sociali, la difficoltà ad elaborare il complesso di Edipo nonché a sviluppare serenamente una identità di genere, in quanto verrà loro a mancare il necessario modello di identificazione maschile e femminile.

Vi sono, tuttavia, degli importanti argomenti che vengono trattati molto poco. Come il fatto che le coppie omosessuali che vogliono avere un figlio, non potendo generare, ricorrono prevalentemente alla fecondazione eterologa e/o alla gestazione per altri. Questo può portare a delle considerazioni che riguardano il campo più ampio delle esperienze di fecondazione assistita nelle quali si crea un divario tra sessualità e procreatività oltre che quello tra generare il figlio e diventare genitori. Il rapporto sessuale procreativo tra i partner riunisce, infatti, in un unico momento, il concreto del corpo e l’agito sessuale con il mondo di affetti, rappresentazioni e fantasmi che ognuno porta con sé e che la coppia ha condiviso (Nicolò, 2005, pp. 43-52). E questo viene a mancare.

Ci si può porre un’altra domanda: in che misura il desiderio di un figlio non riattualizza necessariamente delle fantasie eterosessuali? Fare un bambino suppone, in un modo o nell’altro, di fare riferimento ad un rappresentante dell’altro sesso e dunque sollecita un vissuto più o meno sessualizzato riguardo a ciò.

Per superare il disorientamento suscitato da queste considerazioni, proviamo a ripartire dalle conoscenze che già abbiamo riguardo al desiderio di un figlio e alla genitorialità.

Il desiderio e la decisione di fare un figlio riguarda un momento centrale dell’esistenza umana. Winnicott (1965) ricorda che ciascun figlio e l’atto del concepimento si collocano in modo specifico nella fantasia dei due partner e sollecitano una speciale elaborazione immaginativa ed emotiva sia sul piano conscio che inconscio.

Da Freud a Winnicott il concetto di bisessualità psichica è servito alla comprensione metapsicologica del legame familiare e delle funzioni genitoriali, e, di fronte ad una clinica familiare complessa, che comporta sia la dispersione delle funzioni genitoriali che la loro concentrazione, questo resta lo strumento fondamentale per comprendere le rappresentazioni della genitorialità.

La scelta di un figlio sollecita una parte importante di fantasie profonde che riguardano anche la sessualità infantile. Quest’ultima, che rappresenta una dimensione inconscia ma permanente della mente umana e svolge una funzione attiva nel sostenere sia i legami sia la vita fantasmatica dell’individuo, si riattiva nei passaggi esistenziali che accompagnano l’individuo nel corso della sua vita (Marion, 2016).

La genitorialità è un processo che si acquisisce grazie ad un lento lavoro di elaborazione del singolo e della coppia. È una costruzione molto complessa alla cui strutturazione contribuiscono sia i genitori che il figlio e sicuramente attiene alla coppia dei genitori e non ad uno solo di essi. Essa è sia una funzione della mente che l’espressione dell’interazione tra due o più persone solitamente identificate nella coppia dei genitori nell’ambito di una famiglia nucleare.

La genitorialità simbolica (Nicolò, 2005, p.51) che “colloca il bambino all’interno di una rete di relazioni emotive del genitore e della coppia genitoriale, che lo costituisce al contempo come soggetto-oggetto del desiderio, quello genitoriale e quello proprio” è quella situazione nella quale i genitori si prendono carico della crescita psicologica del figlio investendolo dei contenuti simbolici che qualificano quella filiazione specifica. Il concetto di genitorialità simbolica chiarifica quale è il tipo di relazione che deve intercorrere tra un adulto con funzione genitoriale e un figlio, sia esso naturale o adottivo, nato per vie naturali o per inseminazione artificiale o con una gestazione per altri. Una genitorialità cioè che trasmette simboli e perciò determina una affiliazione, ma anche consente il generarsi di una capacità simbolica.

Il lavoro per diventare un genitore sufficientemente buono è un processo complesso, basato su identificazioni con le proprie figure genitoriali e sulla capacità di assumere le parti genitoriali proiettate dal partner, che non dovrebbe attenere solo all’amore narcisistico per il figlio.

Tutto questo ristruttura l’identità e quindi si diventa genitori progressivamente ed essere genitore modifica come persona.

Da una prospettiva psicoanalitica, la domanda fondamentale da porsi per quanto riguarda le coppie omosessuali è: quale posto e quale funzione ha nella costruzione e nel sostegno di una soggettività “sufficientemente sana” la famiglia con genitori dello stesso sesso? Infatti, l’unico soggetto “abbastanza sano” che la psicoanalisi ha descritto è il soggetto edipico e l’edipo sembrerebbe poter aver luogo come tale solo in una famiglia con una certa forma: coppia genitoriale eterosessuale e proibizione dell’incesto. Quindi, se la realtà sociale smentisce la necessità di una famiglia con un padre e una madre eterosessuali dove entra in gioco l’Edipo?

“Può la nostra teoria continuare a sostenere che la soggettività sana/nevrotica si costituisca esclusivamente in una trama edipica quando innumerevoli soggetti sono stati allevati da una coppia omogenitoriale e non mostrano alcun segno di patologia diversa da quella edipica?”, si chiede Spiwakov (2020, p.147). Forse potrebbe, a patto che “non si assegnino all’ Edipo dei contenuti molto diversi da quelli a cui ci siamo prevalentemente riferiti fino ad ora.”

Potrebbe sembrare, quindi, che la costituzione del soggetto debba implicare la revisione dei modi tradizionali di intendere l’Edipo, cioè ricollocare in un nuovo luogo un nuovo un elemento che è un aspetto nodale della nostra teoria.

Possiamo provare anche a chiederci: ma quali sono le funzioni della famiglia nella sua forma tradizionale – eterosessuale?

Svolge compiti specifici come forma di legame sociale o può essere sostituita da altre configurazioni di legame? Può trasformarsi? L’umanità ne ha bisogno per continuare ad esistere? Esaminare questa domanda non è facile. Potrebbe comunque accadere che, plasmati dalla nostra storia personale, tendiamo ad attribuire alla famiglia che conoscevamo – tradizionale, eterosessuale, occidentale – compiti che in realtà possono essere svolti anche da altri gruppi umani.

Spiwakov (2014) ricorda che qualcosa di simile è successo con la funzione paterna. Egli afferma che se inizialmente tale funzione è stata attribuita al padre biologico in seguito si è capito che poteva essere esercitata da qualsiasi soggetto, e la tendenza attuale è quella di designarla in modo tale che non si riferisca nemmeno al padre: la funzione di interdizione, di separazione o la terzietà (pp.129-150)

Non è detto che tutti i bambini necessitino della concreta opportunità familiare di confrontarsi con il padre e con la madre, con il maschile e con il femminile secondo lo scenario classico (accade già in molti casi che non lo facciano).

La funzione genitoriale era stata in passato pensata come differenziata in “funzione materna e paterna”, articolate tra di loro. È un’osservazione comune che attualmente gli uomini e le donne svolgano sempre più frequentemente in modo differente le funzioni materne e paterne e ci possiamo chiedere se tali cambiamenti culturali corrispondano a trasformazioni profonde nelle strutture degli individui e quali conseguenze avranno nell’organizzazione psichica dei figli (Argentieri 1999).

Non possiamo escludere che in futuro alcuni requisiti dell’identità e della relazione non avranno più lo stesso valore. Già ora possiamo constatare che le classiche differenze evolutive tra maschile e femminile sembrano non avere più lo stesso valore. Non dobbiamo certo sottovalutare la portata di questa deriva psicologica e sociale ma forse dobbiamo accettare di non essere ancora in grado di comprenderne molti aspetti. Dobbiamo tenere conto che siamo in un mondo in trasformazione, soggetto a cambiamenti psicologici significativi che abbiamo appena cominciato a cercare di capire.

Rotenberg, nel 2007 (pp.91-98), scriveva: “credo che sia necessario espandere la funzione genitoriale, che compie diversi atti psichici fondanti, organizzatori della mente del bambino: come il sostegno dell’essere, che prima era assegnato alla madre, la funzione terza o di separazione assegnata al padre, e la funzione di riconoscimento reciproco, in entrambi i sessi. Oggi sappiamo che queste funzioni non corrispondono al sesso biologico e che possono esserci funzioni fisse o alternate in ogni soggetto e nella coppia”.

Bleichmar (in Rotenberg, 2007), pensa che ciò che è nucleare nel processo di costituzione della soggettività non sia necessariamente legato a una forma particolare di famiglia. Ma che ciò che determina la produzione di soggettività sia l’asimmetria tra l’adulto e il bambino – come dice Laplanche – e, in particolare, il divieto di appropriazione del corpo del bambino come luogo di godimento dell’adulto.

Ancora Rotenberg (2007, p.129) afferma che “ciò che conta non é il sesso del partner ma piuttosto qual è l’unione inconscia che sostiene tale legame. Questo determinerà la possibilità o meno di esercitare lo sviluppo delle funzioni genitoriali che connoterà il percorso dello sviluppo mentale del bambino. Postulo che, sebbene Freud dica che l’identificazione è il primo legame con l’altro, prima di questo, ci sono esperienze e vissuti del bambino nel mondo e nell’incontro o misconoscimento con l’altro o gli altri significativi che possono pensare al neonato o meno come un soggetto in divenire. Queste esperienze caratterizzeranno la qualità delle identificazioni primarie e secondarie”.

Golombok (2015) ci ricorda che sono la qualità delle relazioni familiari e il più ampio ambiente sociale che hanno maggiore influenza sullo sviluppo psicologico dei bambini, più che il numero, il genere, l’orientamento sessuale, o la parentela biologica dei loro genitori.

Roudinesco (2002) dice acutamente: “Al di là del ridicolo delle crociate e dei pregiudizi, un giorno sarà necessario ammettere che i figli di genitori omosessuali portano, come gli altri, ma molto più degli altri, il segno singolare di un destino difficile. E dovremo anche ammettere che i genitori omosessuali sono diversi dagli altri genitori. Per questo la nostra società deve accettare che esistano così come sono. Deve concedere loro gli stessi diritti degli altri genitori, ma anche esigere da loro gli stessi doveri. E gli omosessuali non potranno dimostrare la loro capacità di crescere i loro figli costringendosi ad essere ‘normali’. Perché cercando di convincere chi li circonda che questi bambini non diventeranno mai omosessuali, corrono il rischio di dare loro un’immagine disastrosa di sé”.



Conclusioni


Avere uno o due o più genitori, omosessuali, eterosessuali o senza vita sessuale non è insignificante per un bambino o una bambina; sicuramente ha delle conseguenze sui processi di identificazione e disidentificazione. Solo che non è possibile, a partire da queste variabili, prevedere gli sviluppi e tanto meno stabilire relazioni di causa-effetto, come ci sottolinea Argentieri (2010). Ad esempio non si può dire se i figli svilupperanno identità di genere o sessuali concordanti o discordanti con quelle dei genitori; proprio come non si può predire, in caso di figli di coppie tradizionali eterosessuali, quali effetti potranno produrre le parti rimosse, scisse, ambivalenti del padre o della madre. Sappiamo che proprio le quote non integrate a livello conscio nella personalità degli adulti sono quelle che con maggiore pregnanza si trasmettono ai bambini, specialmente in età precoce, per vie inconsce, quando i confini sono fluidi e permeabili. Non esistono nessi lineari di causa-effetto e disconoscere questa evidenza significa forse dimenticare che ogni omosessuale è nato/a da un’unione eterosessuale.

Non sembrerebbe, che i figli di genitori dello stesso sesso presentino problemi particolarmente gravi, ma piuttosto che ci sia una varietà di situazioni tra di loro, in qualche modo paragonabile a quello che succede con i figli di eterosessuali, sia in termini di identità sessuale che di profili patologici.

I bambini ereditano nel loro inconscio il desiderio e la storia dei loro genitori tanto quanto una differenza sessuale.

Cosa dovremmo rispondere, allo stato attuale delle conoscenze, quando ci chiedono cosa sta succedendo nelle famiglie omogenitoriali con le funzioni precedentemente chiamate materna e paterna?

Possono essere adeguate indipendentemente dal sesso della persona che li incarna e dal loro contesto? O, al contrario, ci si deve aspettare che la diversa realtà biologica tra coppie genitoriali dello stesso sesso e coppie eterogenitoriali portino a differenze significative nella costruzione della psiche dei bambini?

Di fronte alle molte domande, quello che possiamo fare è riconoscere che non abbiamo conoscenze sufficienti per dare risposte assolute e che, fondamentalmente, ci manca l’esperienza. Non ci può essere, per il momento, un’opinione psicoanalitica definita su queste questioni: quello che c’è sono le opinioni degli psicoanalisti coinvolti, nel senso più ampio del termine.

Non sembra che, al momento attuale, possiamo esprimere un’opinione precisa su un tema che ci sopravanza, non dimenticando, tuttavia, che tutti i temi che hanno portato a legiferare sulla coppia, l’amore, la riproduzione e la famiglia, hanno occupato inevitabilmente, un posto importante nella nostra vita.

Sembra essere un fatto che tra qualche decennio le famiglie omogenitoriali saranno, insieme ad altre, una modalità consolidata di famiglia ed è anche un fatto, e certamente non legato all’omosessualità, che la famiglia – di qualsiasi tipo – può anche divenire un luogo che favorisce le problematiche dei bambini.

Penso che si possa convenire sul fatto che sebbene l’omosessualità sia stata depatologizzata, non sembri utile fare un’analogia tra famiglie eterosessuali e famiglie dello stesso sesso. Partendo dall’idea che sia gli eterosessuali che gli omosessuali possono essere nevrotici, perversi o psicotici, è importante non patologizzare e non omologare, ma piuttosto essere in grado di pensare a questi nuovi legami senza porci in una posizione di certezze. Anche se la famiglia è cambiata ciò che rimane invariante è il bisogno fondante di un altro/un’altra per la costituzione soggettiva del bambino.


Riassunto

L’articolo si interroga su quale influenza abbiano i cambiamenti della realtà delle famiglie nell’orientare il pensiero psicoanalitico e se la psicoanalisi sia in grado di accogliere all’interno del suo apparato teorico-clinico il nuovo che avanza; un lavoro che deve essere svolto attualmente nel campo della psicoanalisi, nel tentativo di cercare nuove risposte alle nuove situazioni della realtà. Prima di approfondire il tema dell’omogenitorialità l’articolo si sofferma sui temi dell’identità di genere e dell’omosessualità, facendo anche alcuni accenni alle tematiche della psicosessualità e del complesso edipico. Vengono prese in considerazione le opinioni di diversi autori sulle tematiche dell’omosessualità e della omogenitorialità.


Parole chiave

Omogenitorialità, Identità di Genere, Psicosessualità, Complesso di Edipo, Funzione Genitoriale.

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Daniela Lucarelli

Psicologa, psicoterapeuta

Membro ordinario SPI

Docente del Corso di perfezionamento

postspecialistico e ricerca clinica

in psicoterapia psicoanalitica

della coppia e della famiglia (PCF)


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