Madri parallele

Regia di Pedro Almodovar, 2021

aurora gentile




All’agenzia spagnola di stampa EFE, Pedro Almodovar ha dichiarato che con Madres Paralelas ha inteso ritornare all’universo femminile, alla maternità, alla famiglia. “Parlo degli antenati e dei discendenti. Della presenza inevitabile della memoria. Se nei miei film ci sono molte madri, queste rappresentate in questo film sono molto diverse. Come narratore, sono le madri imperfette a ispirarmi di più in questo momento”.

Il film, che ha aperto la 78° Mostra del Cinema di Venezia, racconta la storia di due madri single, che danno alla luce due bambine nello stesso giorno, perché entrambe si trovano nello stesso reparto di maternità a Madrid. Il dramma si svolge lungo due anni e segue le loro vite parallele. Sono due donne molto diverse ed entrambe sono rimaste incinte per caso. Janis la più matura non potrebbe essere più felice e come le donne della sua famiglia conta di allevare da sola il suo bambino. L’altra, Ana, che è un’adolescente, è stata vittima di uno stupro di gruppo da parte di suoi compagni di scuola, è spaventata, ma di questo episodio di violenza parla in definitiva con leggerezza, si è sempre sentita trascurata, inesistente per i suoi genitori, e di questo non ha fatto parola con nessuno prima di raccontarlo a Janis.

Nell’apertura, simile a un preludio, Janis chiede ad Arturo, un antropologo forense, di aiutarla a organizzare degli scavi in una fossa comune dove fu sepolto il suo bisnonno dopo essere stato giustiziato dai falangisti durante la guerra civile spagnola. Certo, fa riflettere il fatto che la Spagna sia al secondo posto nel mondo dopo la Cambogia per numero di ‘desaparecidos’ del ventesimo secolo – quelli assassinati da un regime repressivo e mai presi in considerazione. Il dibattito in corso in Spagna, sulla memoria storica e la ricerca di tombe anonime si riflette nel desiderio del film di verità, responsabilità e identità che s’intreccia con l’altro filone della trama. A più di 45 anni dalla morte di Franco, la Spagna porta ancora le cicatrici della sua brutale dittatura. Uno dei tanti modi in cui queste cicatrici prendono forma è attraverso le fosse comuni non contrassegnate che ricoprono la campagna. Dopo decenni in cui sono state ignorate - come se dimenticando le vittime di Franco il suo regime violento potesse anche essere dimenticato e lasciato a dissolversi in polvere - queste fosse vengono ora cercate e i resti riesumati in modo che i discendenti in lutto delle vittime possano seppellirle adeguatamente e infine trovare una qualche forma di pace. Sappiamo che questa storia è destinata a tornare nel film, ma svanisce dalla memoria degli spettatori, come probabilmente è sbiadita da quella della Spagna, mentre s’intensifica la storia delle due madri. Se fosse rimasta così, fungendo solo da cornice contestualizzante, Madri parallele sarebbe stata un’altra bella voce tra i melodrammi femminili di Almodóvar, formando una trilogia sulla maternità single insieme a Tutto su mia madre e Julieta. Ma questo film racconta più storie nel tentativo di metterle insieme come pezzi di un puzzle, di cui non si riesce a venire a capo.

Le donne di questo film soffrono, in particolare Ana, ma non sono dipinte come martiri, hanno una loro identità, il regista vuole solo esplorare i loro tentativi di creare un tipo di famiglia del tutto moderno nell’ombra incombente del passato e forse c’invita a tollerare la confusione che lo shock tra temporalità diverse può generare. Janis fornisce ad Ana il supporto che la madre di Ana, Teresa, un’attrice di mezza età che finalmente trova sul palco il successo che ha sognato per tutta la sua vita, non può fornire. Janis sa cosa vuol dire sentirsi senza madre; è stata allevata dalla nonna dopo che suo padre è scomparso e la sua giovane madre (che ha chiamato sua figlia come Janis Joplin) è morta di overdose. Ci provano Janis e Ama a ritessere legami familiari intorno alle nuove nascite, se non intervenissero nuovi colpi di teatro a cui il cinema di Almodovar del resto ci ha abituato. È un primo colpo la morte della bambina di Ana, morta di “morte in culla”, stava bene, poi “ha semplicemente messo di respirare per immaturità cerebrale”. È un brutto colpo per Ana, ma la bambina appena nata scompare così come era comparsa inaspettatamente nella sua vita. Questo vuoto la spinge verso Janis e l’altra bambina di questa, mossa da un’inesorabile desiderio di vivere a dispetto di tutto. Janis in un certo momento del film dichiara che l’istinto materno non esiste, ed è palese che concepisce la figlia come un’estensione del suo prepotente narcisismo. Ma alcuni segnali inquietanti iniziano a emergere in superficie. Nessuno pensa che la figlia di Janis le assomigli, e Arturo nega che la bambina possa essere sua dopo averla intravista. Volendo tacitare i suoi sospetti, Janis si rivolge alla scienza del DNA. E poiché questo è Almodovar, si può probabilmente indovinare quali sono i risultati. Ma anche quando la trama assume toni da telenovela, con i suoi surrettizi test del DNA e incontri sessuali sorprendenti, Almodovar insiste nel volere che tutto trovi una base nel sentimento umano reale. Il rapporto tra Janis e Ana è quello tra due donne che all’inizio sembrano avere poco in comune, a parte il tempo e il luogo in cui entrambe hanno partorito, eppure i legami che le uniscono sono forti, e profondamente avvincenti. Ana non capisce la preoccupazione di Janis per il passato, essendo di una generazione così lontana da Franco e che i suoi crimini sono poco più che sussurri passati tra parenti; Janis non riesce a comprendere un mondo in cui Ana e la sua generazione non riconoscono gli orrori che il loro paese ha attraversato, mentre ricordarli è il modo più importante per assicurarsi che non si ripetano più, siamo dunque di fronte alla rottura del legame intergenerazionale. Nondimeno, entrambe le donne sanno cosa vuol dire afferrare qualsiasi residuo d’amore e di famiglia che riescono a trovare e lo fanno l’una con l’altra. La relazione tra Janis e Ana, sebbene a un certo punto diventi sessuale, non può essere facilmente etichettata come una storia d’amore lesbica, poiché la loro intimità contiene una moltitudine di strati oltre (ma includendo) l’attrazione fisica. Per Ana può essere un modo di risolvere incestuosamente il rapporto con la madre, la via più corta per uscire da un conflitto irrisolto. Per Janis è diverso, quando accetta il bacio di Ana, la sua prima reazione è di shock, poi quella di una leonessa che entra in modalità sopravvivenza; farà tutto il necessario per proteggere e preservare la strana piccola famiglia che hanno messo insieme. Non è tradizionale, è flessibile e non facilmente definibile dalla genetica, ma è comunque la famiglia che nessuna delle due donne ha avuto. Eppure il segreto che Janis porta dentro di sé non può rimanere sepolto a lungo, e le contraddizioni inerenti al modo in cui sta vivendo la sua vita - cercando la verità sulla morte del suo bisnonno mentre si aggrappa a una bugia su sua figlia - avranno la meglio su di lei. Quel che resta è la memoria di quella fossa infine aperta, gli scheletri ricomposti a cui è stato restituito un nome e la bambina sopravvissuta che avrà due madri, anche se imperfette. Con Madri Parallele il regista settantenne sembra fare un bilancio delle sue ricerche sulle donne e sulla maternità, proponendoci una sua lettura del presente, delle nuove forme di famiglia e delle madri di questo tempo. Le nostre madri parallele, e soprattutto Janis, sono orientate alla realizzazione concreta dei propri obiettivi, la loro attenzione e le loro energie sono orientate all’esecuzione pratica di gesti e azioni per generare esiti concreti, tangibili e utili nella realtà circostante, assumono la maternità come un lavoro, come quando Janis insegna ad Ana a fare una frittata di patate, perché in un certo senso le serve che Ana impari a cucinare e possibilmente bene, ma è anche la trasmissione di un sapere che a sua volta le hanno trasmesso. Certo, Janis è rivolta alla concretezza e non perde troppo tempo a pensare, perché intanto bisogna far quadrare i conti e non far mancare nulla alla bambina, lei cerca sempre soluzioni concrete, fa e agisce, è intraprendente e dotata di senso pratico che le permette di assumere la situazione complessa in cui si trova, senza lasciarsi trascinare in eccessive riflessioni e sentimentalismi. Ma non è soltanto questo. Il film è, come il regista dichiara, un film sugli antenati e i loro discendenti, e su come si può riparare la povertà dell’esperienza che ci è stata trasmessa. Che esperienza di maternità queste due donne hanno fatto? Sia l’una che l’altra sono cresciute senza madri. Nei grandi creatori, come scriveva Walter Benjamin nel testo del 1933, Esperienza e povertà, “c’è una alleanza tra una completa disillusione sulla nostra epoca” e “un riconoscimento senza riserve di questa stessa epoca”, epoca che è anche la nostra segnata dalla sfiducia e da cambiamenti ancora non elaborabili. La riflessione proposta nel testo da W. Benjamin mette in evidenza che gli eventi traumatici nella vita del soggetto hanno la conseguenza di rendere impossibile poterne parlare, è questo che lui pensa essere la povertà nuova dell’esperienza, e quindi è difficile trasmetterla da una generazione all’altra.

Ma scrive, la povertà d’esperienza conduce a ricominciare dall’inizio: ricominciare di nuovo, cavarsela con poco, ricostruire con poco. Senza guardare a destra o a sinistra. Almodovar ci suggerisce che dobbiamo tentare combinazioni nuove, forse inedite, ma che conservano la vita, nonostante possano apparire paradossali. La perdita irrimediabile che comporta qualsiasi trasmissione apre anche uno spazio alla creazione e alla trasformazione: che genere di madri nuove, degne d’attenzione e di amore, i tempi nuovi stanno producendo? Le nuove famiglie, come quella di Janis e Ana, racconta Almodovar, hanno sì una costruzione arbitraria, in opposizione alla composizione organica di una volta, ma sono rispettabili, si sono adattate alla povertà e, anche con poche cose, annunciano un nuovo inizio.