Segnalazioni bibliografiche



Rubrica a cura di: F. Gigli (coordinatrice), S. Cimino, L. De Rosa, A. Flori, V. Garms.


Riviste segnalate: Adolescence, Journal of the American Psycho-Analytical Association, Journal of Child Psychotherapy, Interazioni, International Journal of Psycho-Analysis, Journal de la Psychanalyse de l’Enfant, Psichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza, Psychiatrie de l’Enfant, Psychoanalytic Study of the Child, Rivista di Psicoanalisi,
Winnicott Studies, Bulletin de la Fédération Europeenne de Psychanalyse (FEP),
Revue Française de Psychanalyse.



Premessa introduttiva

Proponiamo per questo numero due lavori recenti di psicoterapeuti ad indirizzo psicoanalitico che hanno prestato la loro opera con soggetti in età evolutiva in contesti molto diversi, le cui riflessioni sulla tecnica della psicoterapia psicoanalitica convergono tuttavia nell’esplorazione di livelli di funzionamento della mente e di canali di comunicazione ‘globali’, non soltanto verbali, nella relazione coni i pazienti, in particolari condizioni di sofferenza.

L’articolo di Acheson e coll. si incentra sui significati e sul ruolo del silenzio nel lavoro terapeutico con bambini e adolescenti depressi; a questo fine viene presentato uno studio complesso, che contempla metodi codificati di analisi anche quantitativa dell’occorrenza dei silenzi nell’ambito delle sedute, ed analisi di follow up nel corso delle stesse terapie. Il supporto del terapeuta assume un ruolo cruciale in questa fascia di età, in quanto può far sì che l’espressione del silenzio svolga un ruolo processuale, piuttosto che resistenziale, all’interno della relazione.

Non più in un contesto di ricerca, nel secondo contributo la Beritzhoff ci guida al lavoro clinico condotto con bambini e adolescenti migranti, nelle condizioni traumatizzanti proprie di un campo profughi.

Nel campo profughi di Moria, sull’isola greca di Lesbo, che ha ospitato minori ed adulti richiedenti asilo fino al settembre 2020, quando un incendio lo ha distrutto, si veniva a realizzare un tempo ‘sospeso’ in cui i riferimenti identitari erano smarriti; le cronache giornalistiche hanno descritto con grande allarme, anche in giovanissimi e nei bambini, gravi crisi psichiatriche e seri tentativi di suicidio. L’A. descrive nel suo scritto come, in questa condizione estrema, per preservare il nucleo sacro e inviolabile del Sé dalla minaccia di annientamento sia necessario stabilire un contatto sostando in questo ‘frattempo’ insieme ai soggetti sofferenti: ciò è stato possibile condividendo con bambini ed adolescenti, potenziali vittime di disperazione e crisi emotive acute, esperienze corporee come il nuoto ed il gioco in acqua.

Questi due studi, condotti in ambiti e con metodi così diversi, si situano all’interno di una comune comprensione del funzionamento psichico e della sofferenza emotiva, con ampi riferimenti al pensiero psicoanalitico, in particolare winnicottiano, sulle vicende del Sé e della relazione terapeutica in bambini ed adolescenti traumatizzati. Emerge come prevalente il ruolo della presenza del terapeuta, piuttosto che delle sue parole per sostenere il paziente nel contatto con sentimenti di frammentazione e nella protezione del nucleo del proprio Sé.

All’interno di contesti di sofferenza, è necessario che il terapeuta trovi traiettorie proprie, che privilegiano l’attenzione agli aspetti non verbali dell’interazione terapeutica, veicolo della condivisione e della sintonia su aspetti preverbali dell’esperienza.

Laura De Rosa


R. Acheson, N. Verdenhalven, E. Avdi,     N. Midgley.

Exploring silence in short-term psychoanalytic psychotherapy with adolescent with depression.

Journal of Child Psychotherapy, 46,2,224-240.

Questo interessante lavoro, clinico e di ricerca, pone al centro il tema del silenzio nella psicoterapia psicodinamica dell’adolescente di breve durata, intendendo un lavoro clinico di circa un anno con sedute bisettimanali, con giovani pazienti che presentano un quadro clinico caratterizzato da elementi depressivi. Gli AA. riflettono sull’importanza di portare avanti la ricerca sul processo psicoterapeutico, utilizzando costrutti di ambito psicoanalitico. In questo contributo evidenziano come il significato del silenzio, seppur centrale nel lavoro clinico, sia stato spesso trascurato quando si parla di psicoterapia dell’età evolutiva.

Molto interessante l’introduzione del lavoro in cui gli AA. passano in rassegna alcuni contributi teorici e clinici, evidenziando come il significato del silenzio sia cambiato nel corso dell’evoluzione del pensiero psicoanalitico. Se autori come Freud o Ferenczi consideravano il silenzio come una difesa, una resistenza al procedere del lavoro analitico, successivamente numerosi autori, come Winnicott o Greenacre hanno messo in luce il significato processuale del silenzio: veniva considerato, da questi autori, come un elemento centrale del lavoro, che metteva in luce elementi importanti da analizzare nel transfert. Infatti, il silenzio poteva collegarsi a vari aspetti, come un tentativo di fusione, un modo per eludere il lavoro di elaborazione del lutto oppure un modo per comunicare esperienze preverbali non elaborate. Questi interessanti contributi, però, si riferiscono a pazienti adulti e scarsa è la letteratura che ha offerto un focus specifico sugli adolescenti. E proprio a partire da questa mancanza, gli AA. provano ad interrogarsi sui vari significati del silenzio nel lavoro psicodinamico con gli adolescenti, con l’obiettivo di riflettere su elementi della tecnica.

Nella parte di ricerca gli AA. analizzano tre psicoterapie psicodinamiche brevi con adolescenti di circa 15 anni. Da una complessa analisi dei dati, che ha previsto trascritti di sedute all’inizio del trattamento, ma anche nelle fasi intermedie e finali, è emerso che il silenzio si presentava in circa un terzo del lavoro clinico. Dunque, il silenzio è molto presente, come nella psicoterapia psicodinamica degli adulti, anche in quella con gli adolescenti. Particolarmente interessante appare il significato attribuito al silenzio, sia dai clinici che dai giovani pazienti. Nonostante il diverso significato del silenzio nelle varie fasi delle psicoterapie che, naturalmente, non può essere generalizzato, sono emersi alcuni aspetti peculiari. Per i ragazzi il silenzio era generalmente considerato “un disturbo”, cioè un elemento che li faceva sentire a disagio ed in difficoltà. Nel lavoro sono riportati i trascritti di alcune frasi dei pazienti adolescenti, dove emerge proprio la funzione di “ostacolo” che il silenzio rappresentava per loro. Ma queste sensazioni, giudicate come estremamente disturbanti e da allontanare il più rapidamente possibile, facevano emergere anche affetti di vuoto, inutilità, mancanza di speranza, sentiti come fortemente disturbanti da questi giovani pazienti.

Per i clinici, invece, il silenzio, nella maggior parte dei casi, era collegato alla presenza di un conflitto inconscio del paziente che faticava ad emergere. Il silenzio veniva vissuto dai clinici con elementi di controtransfert molto intensi che si ponevano in un’area depressiva: sensazione di sfiducia, di inutilità, di mancanza di progettualità futura. Nei tre casi esaminati, in particolare, il conflitto inconscio sembrava collegarsi ad elementi depressivi non ancora elaborati all’interno del transfert e che, grazie al silenzio, potevano pian piano essere avvicinati e lavorati.

Tra i vari temi di discussione, molto interessante è la domanda che si pongono gli AA. su come utilizzare clinicamente il silenzio nella psicoterapia degli adolescenti. Nei tre casi analizzati emerge come i clinici non avessero affrontato direttamente con i ragazzi i possibili significati dei vari silenzi, ma avessero usato i silenzi per elaborare aspetti di transfert e controtransfert che, man mano, stavano emergendo. Dai dati emersi, tuttavia, gli AA. si interrogano sulla possibilità di usare i silenzi come materiale da analizzare con i ragazzi, come con gli adulti, perché si tratta di momenti importanti del processo, che forse devono essere lavorati, proprio come le libere associazioni oppure i sogni. Inoltre, gli AA. pongono grande attenzione al significato relazionale del silenzio. Gli AA., infine, riportano alcune osservazioni anche su un altro aspetto molto interessante: i giovani pazienti analizzati in questo contributo sembrano non collegare affatto il silenzio a qualcosa di trasformativo nel corso del lavoro clinico. Sembrano non riuscire ad avvicinare i silenzi ad aspetti interni che si riferiscono a paure, ma anche a desideri, diversamente dai terapeuti che colgono molto fortemente questi aspetti. Questo dato è molto diverso da ciò che emerge nel lavoro con i pazienti adulti, i quali sembrano dare al silenzio nelle loro terapie un significato importante e trasformativo nel corso del tempo. Gli AA., in linea con questa riflessioni, sottolineano l’importanza di continuare a interrogarsi sul silenzio nella psicoterapia psicodinamica degli adolescenti, suggerendo ai clinici il mantenimento di un giusto equilibrio nel permettere ai giovani di sperimentare un silenzio, inteso come contatto intimo con se stesso, aiutando i ragazzi a non sentirsene risucchiati, facendosi presenti quando necessario per aiutare a tollerare, pian piano, il vuoto che i silenzi spesso veicolano.

Silvia Cimino

L.C. Beritzhoff (2021).

Psychoanalysis in the Meantime

Psychoanalytic Dialogues, 31,1,81-99

Questo articolo riflette sul pesante tributo psichico che la crisi migratoria umanitaria impone sulle persone dislocate in tutto il mondo, in particolare bambini ed adolescenti detenuti in campi di transizione. Gli esiliati trattenuti in detenzione lottano per sopravvivere psichicamente in quel che l’Autrice chiama “il frattempo”. Con quest’espressione, che dà anche il titolo al lavoro, la Beritzhoff si riferisce alla dimensione sospesa fuori del tempo e dello spazio, in cui si trovano i migranti in questi campi, in attesa del riconoscimento del diritto di asilo; una dimensione in cui il sé – con il linguaggio di Winnicott – non ha un luogo in cui “continuare a essere” e “abitare”: non c’è né un prima né un dopo, nessun luogo da cui o verso cui muoversi, o in cui “atterrare” portando avanti l’eredità simbolica della propria famiglia; qui si è paralizzati in un tempo senza movimento, in cui il lutto migratorio si estende all’infinito, e l’essere ridotti a mero “altro indesiderato e indesiderabile” rischia di inghiottire la soggettività del sé. Si tratta di un contesto in cui non solo si perde il legame fondamentale sé-altro, ma in cui la capacità stessa di entrare in relazione con altre soggettività deve essere ricostruita.

L’A., che ha trascorso un periodo nel campo di Moria, sull’isola greca Lesvos, sottolinea come in questi contesti, in cui dissociazione o depersonalizzazione diventano un modo collettivo di vivere, non sia possibile fare un lavoro terapeutico che miri alla metabolizzazione ed elaborazione dell’esperienza intollerabile dentro ad un registro simbolico di ricostruzione del sé, del senso e delle relazioni. Piuttosto, afferma la Beritzhoff, si tratta di portare nell’inferno di questi campi quel che abbiamo imparato grazie alla psicoanalisi sullo sviluppo del sé, di “usarlo” per chiederci come preservare in queste condizioni estreme quel che è – secondo l’espressione di Winnicott – “più degno di essere preservato”: la continuità dell’essere del sé e del suo nucleo sacro ed inviolabile, e la possibilità stessa di fare esperienza di un legame di interdipendenza con un altro da sé.

La Beritzhoff riprende l’articolo del 1963 di Winnicott “Comunicare e non comunicare”, lì dove afferma che – per sopravvivere ad attacchi traumatici – il sé dipende da due sorgenti: dalla possibilità di una comunicazione intima, non esplicitata o esplicitabile, con oggetti soggettivi, che permette di sentirsi vivi e reali, e da fenomeni transizionali che tengono in contatto il mondo interno ed il mondo esterno, portando ad un arricchimento reciproco e ad incontri di “comunicazione immaginativa” con l’altro. Perché lo spazio transizionale tra il sé e l’altro rimanga aperto (o venga ri-aperto), secondo Beritzhoff, servono delle esperienze di contatto e comunicazione intima con persone che lei chiama “i responsabili” capaci di sostare anche loro in questo “frattempo”, a contatto con la propria impotenza e insensatezza.

L’A. descrive come è potuta entrare in contatto con ragazze dai 5 ai 18 anni, che avevano alle spalle anni di viaggio, violenze e sfruttamento, per mezzo di quotidiane lezioni di nuoto, che si svolgevano proprio in quel mare che tanto aveva minacciato la vita delle ragazze. Si trattava, secondo l’A., di un lavoro su un piano esperienziale e pre-simbolico, che mediava il bisogno delle ragazze di continuare a esistere, che generava uno spazio di movimento, e mitigava gli effetti di depersonalizzazione e disperazione. A partire dall’esperienza reale, corporea di essere tenute, di poter galleggiare nell’acqua in presenza di un altro “responsabile”, attraverso il gioco, il ritmo ed in unione con la natura, alle ragazze veniva restituito un tempo soggettivo e si creava uno spazio transizionale. La Beritzhoff descrive come ciò abbia condotto anche dentro di lei a dei mutamenti profondi, simili a quelli dei migranti: il rafforzarsi di un senso di valore, efficacia e movimento che contrasta la paralisi, il costituirsi di oggetti soggettivi trasformativi, il restaurarsi di una fiducia di fondo che “ci sia un altro lì”.

Oltre a confrontarci con la dolorosa, impellente e troppo spesso rimossa questione migratoria, questo articolo ha anche il merito di porci, attraverso un contesto “altro” ed estremo, di fronte ad interrogativi fondamentali della nostra clinica con pazienti traumatizzati: la domanda di quali siano le componenti essenziali di cui prendersi cura in un tempo prima che diventi accessibile il registro simbolico, e come si possa rispondere al bisogno fondamentale di una persona di ritrovare una continuità dell’essere (going-on-being).

Veronica Garms