La delusione della guerra

diomira petrelli



Caducità è il titolo di un breve e famoso saggio di Freud scritto in un anno terribile, il 1915, quando ormai la Prima Guerra Mondiale era scoppiata da un anno e stava man mano deludendo le attese di una rapida e indolore conclusione. Nello stesso anno Freud scriveva anche le Considerazioni attuali sulla guerra e la morte. Una contemporaneità che non sembra casuale e che delinea il filo di un discorso che evidentemente Freud andava svolgendo.1 Il tema che lo occupa e che è centrale è quello del lutto, o per meglio dire del “lavoro del lutto”.


In un recente articolo (9 marzo 2022) il filosofo Roberto Esposito parla del “ritorno della storia” a proposito degli ultimi eventi di guerra.

Nella sua analisi Esposito traccia, a grandissime linee, un confronto tra la pandemia e la guerra, sottolineandone punti in comune ma anche fondamentali diversità.

Se entrambe, pandemia e guerra, ci hanno colto di sorpresa lasciandoci in eredità un mondo radicalmente cambiato, rischiando di produrre un disastro economico di proporzioni impensabili e di cambiare le forme della comunicazione mediatica, hanno però protagonisti profondamente diversi e richiedono per questo di essere affrontate con strumenti diversi.

In un caso la Natura, nell’altro la Storia, che hanno a che fare entrambe con la Vita e la Morte. Dobbiamo, secondo Esposito, essere consapevoli della loro radicale differenza e della necessità di affrontarle con strumenti diversi: scienza e tecnologia da una parte, politica dall’altra.

Il Novecento – scrive Esposito – torna a bussare violentemente alle nostre porte con tutti i problemi rimasti irrisolti. Sappiamo che il postino bussa sempre due volte e che la seconda volta è peggio della prima.

Non entrerò nel merito della distinzione che il filosofo introduce tra i due agenti delle due crisi – la pandemia e la guerra – ma mi soffermerò piuttosto su un elemento che le accomuna, il nostro vissuto di essere stati colti di sorpresa, con l’amara sensazione che “niente sarà più come prima”.


Rileggendo Freud – in queste situazioni alcuni trovano conforto nel rileggere i classici – i suoi due scritti del 1915 Considerazioni attuali sulla guerra e la morte e Caducità – sono rimasta colpita dal ritrovarvi espresso il senso di stupore e di delusione per il nuovo divampare della guerra, anche in forme e modi che si credevano ormai superati. Il primo paragrafo delle Considerazioni attuali si intitola infatti “La delusione della guerra”.

In questione sono, secondo Freud le conquiste del processo di civilizzazione. Un sentimento che proviamo anche noi oggi. Come scrive Esposito, riecheggiando Freud de Il perturbante, “mai prima, nelle città devastate dell’Ucraina, il familiare è stato così intrecciato con l’inaspettato.” Forse, leggendolo a mio modo, l’intendo come il ripresentarsi in modo inaspettato di immagini ahimè purtroppo familiari di distruzione e di morte. Quelle che avevano devastato le nostre città nel secolo scorso.


Penso tuttavia che dobbiamo chiederci anche perché tutto ciò ci ha colto di sorpresa – eppure tanti segnali, tristemente ammonitori del pericolo, c’erano stati, sia per quanto riguarda il rischio di pandemie – più volte annunciate e poi per fortuna scansate – sia per quanto riguarda il divampare della guerra, che in verità non aveva mai smesso di ardere in diversi “focolai” pericolosamente accesi sulla scena mondiale.


Credo che il nostro stupore attonito, accompagnato da una profonda delusione, nasca da un atteggiamento interno di onnipotenza che sembra essere anche una radice comune di queste crisi.

Non intendo ovviamente parlare delle cause storiche, socio-politiche ed economiche, di questi eventi, ma piuttosto esplorare il loro possibile significato psichico.

Sia di fronte ai poteri della Natura che di fronte alla distruttività che si manifesta nella Guerra avevamo nel tempo assunto un atteggiamento ingenuo di malcelata onnipotenza, basata su meccanismi di difesa di rimozione se non di scissione. Noi credevamo… mi riecheggia il titolo di un romanzo, ripreso poi da un film di Martone, che parla della delusione degli ideali del Risorgimento. Si, noi credevamo se non di aver sconfitto la Natura e la Guerra almeno di esserci andati vicino e di aver acquisito delle capacità di dominio e di controllo che in effetti non abbiamo. Rapidamente ci siamo resi conto di poter essere inermi e indifesi di fronte al virus e ora forse anche di fronte alla Guerra.

Il crollo della nostra illusione onnipotente di poter prevedere e controllare la Natura è stato rapidissimo e ha lasciato una traccia di disorientamento, di delusione.

In un attimo – che è durato lunghi mesi – siamo come precipitati all’indietro nel tempo ed è sembrato quasi che l’unico mezzo a disposizione per combattere la pandemia fosse l’isolamento, l’interruzione del contatto fisico, la rinuncia a tutte le abitudini acquisite della vita quotidiana. I danni provocati da queste “rotture” non sono ancora ben quantificabili ma si evidenziano man mano nel tempo.

Le parole del saggio di Freud ci ritornano qui come un richiamo alla realtà degli aspetti più fragili della natura umana – non siamo onnipotenti di fronte alla Natura, fuori e dentro di noi – e soprattutto non siamo onnipotenti di fronte alle forze distruttive che attraversano l’uomo e quindi anche noi stessi.

Caducità ci confronta con lo sgomento di fronte alla deperibilità della bellezza, per esempio la bellezza della Natura, ma anche di fronte alla fragilità delle nostre illusioni.

Il discorso di Freud col giovane poeta sulla possibilità di amare anche ciò che sappiamo che non durerà avviene in due tempi, ha una ripresa a posteriori (la passeggiata che Freud descrive avvenne nel 1913, lo scritto è del 1915), quando lo scoppio della guerra aveva confrontato tutti in modo ben diverso con la morte. Se il poeta doveva fare i conti con un sentimento di lutto per la deperibilità della bellezza, un lutto irrisolto che gli impediva di godere pienamente della bellezza e della natura se queste sono deperibili, possiamo intuire che Freud stesse parlando ora di sé stesso e della sua necessità di fare il lutto rispetto a quella che si era rivelata la fragilità delle conquiste del processo di civilizzazione.

La psicoanalisi – e mi riferisco qui a Freud, M Klein, Bion – ci propone una visione dell’uomo attraversato da un profondo conflitto interno tra forze di vita e di morte, in una lotta inesausta.

Alcuni anni più tardi, nel 1929 – nel tragico intervallo tra le due Guerre mondiali – Freud avrebbe scritto:


“Al programma della civiltà si oppone la naturale pulsione aggressiva dell’uomo, l’ostilità di ciascuno contro tutti e di tutti contro ciascuno. Questa pulsione aggressiva è figlia e massima rappresentante della pulsione di morte, che abbiamo trovato accanto all’Eros con il quale si spartisce il dominio del mondo. Ed ora, mi sembra, il significato dell’evoluzione civile non è più oscuro. Indica la lotta tra Eros e Morte, tra pulsione di vita e pulsione di distruzione, come si attua nella specie umana”. (Sigmund Freud, Il disagio della civiltà, 1929)


L’esito di questo conflitto è incerto; nella visione di Freud il suo riprodursi (all’interno e all’esterno) è inevitabile e non possiamo essere certi di quale forza prevarrà.


Negli appunti, pubblicati postumi, di M Klein sul senso di solitudine mi ha molto colpito che ella annotasse: noi odiamo le nostre parti che odiano, ascrivendo al ripresentarsi di queste forze distruttive dentro di noi la responsabilità di una particolare forma del senso di solitudine, sottolineando al tempo stesso la necessità di fronteggiare e combattere queste forze aggressive/distruttive e rancorose dentro di noi, ritrovando e rinsaldando il legame con gli oggetti buoni.

M Klein pone l’accento sulla continuità del senso di solitudine nelle varie fasi della vita e sulla sua “normalità”, facendone una declinazione costitutiva della condizione umana, continuamente confrontata con il proprio limite, con l’impossibilità di vedere sé stessi fino in fondo, di conoscersi, di comprendersi e di sentirsi pienamente compresi. Quindi con l’impossibilità di sentirsi veramente e stabilmente uniti con l’oggetto buono che è il nucleo di aggregazione del Sé. Il senso di solitudine è da lei descritto non solo come la spinta che, attraverso il bisogno di colmare isolamento e mancanza, va in direzione di un recupero di parti e funzioni del Sé, ma anche come l’esito dell’incontro con la difficoltà di questi processi.

Infatti la sofferenza che accompagna il processo di integrazione contribuisce a sua volta al sorgere di una particolare declinazione del senso di solitudine perché il tentativo di ricomposizione porta il soggetto a confrontarsi con i propri impulsi distruttivi e con le parti odiate del Sé, cioè con l’odio per le proprie parti che nutrono odio e che talvolta sembrano incontrollabili. La solitudine del soggetto è anche quella che egli prova di fronte alla propria distruttività.

Per quanto i processi di integrazione vadano avanti resta comunque un fondo perduto la cui accettazione implica un ridimensionamento dell’onnipotenza e dell’idealizzazione, pur importanti e necessarie. Questo fondo oscuro non integrato – le parti distruttive del Sé che rappresentano l’inesauribile riemergere dell’istinto di morte dall’interno – ha a che fare con il senso del limite e col problema, con cui il soggetto si confronta, della distruttività interna e, in ultima istanza, della morte.

In continuità con la visione freudiana sono le forze di Eros quelle che spingono a creare legami sempre più vasti e sostengono la nostra lotta – interna ed esterna – contro la distruttività.

Il legame con l’oggetto buono costituisce il vero nucleo del Sé, il suo centro di aggregazione e di ancoraggio. Allo stesso modo i processi di civilizzazione si appoggiano e si nutrono della formazione di aggregati e gruppi che rinforzano l’appartenenza, intesa in senso libidico.

Questa lotta interna si presenta in momenti cruciali della vita – ad esempio nell’adolescenza o nella vecchiaia – quando le trasformazioni del corpo ci danno una spinta, vengono a rompere equilibri più o meno stabilizzati ricreando un senso di precarietà.


Se guardiamo in quest’ottica al grande gruppo vediamo che in questo momento storico siamo scossi, come ho già detto, da una forte delusione. Ci coglie un profondo senso di caducità di fronte alla disillusione delle nostre illusioni di onnipotenza.

Soprattutto non può mancare di colpirci la successione degli eventi: pandemia e guerra. Da un lato ci sembra di scorgervi quasi un accanimento, dall’altro ci interroghiamo sul significato emotivo di questa successione.

Penso che la riflessione del pensiero psicoanalitico possa contribuire a gettare luce su alcuni aspetti di questi processi.

In Italia in numerosi scritti degli anni ‘60 e ‘70 Franco Fornari sviluppa e approfondisce le ricerche che nell’immediato dopoguerra altri Autori, quali ad esempio Money-Kyrle, avevano svolto sulla “personalità autoritaria”, mettendo in evidenza alcuni aspetti centrali dei meccanismi psicologici che si sottendono alla guerra.2 A suo avviso la guerra come forma estrema di polarizzazione dei conflitti, nasce, dal punto di vista psicologico, come ricerca di una “via breve” di soluzione – una sorta di tremenda “scarica” – che permette di evitare la sofferenza del lavoro del lutto e della colpa, scaricandola all’esterno, sul nemico, sul quale vengono proiettate le responsabilità per le perdite e la colpa sentita come insostenibile. È “lui” il colpevole. È lui che deve ammettere le sue colpe. In continuità con il pensiero kleiniano e post kleiniano Fornari vede nella guerra e nei meccanismi psicologici in essa coinvolti una forma di “elaborazione paranoicale del lutto”. “Quando una realtà distruttiva viene coperta da simboli d’amore esiste la possibilità che ciò costituisca un’operazione destinata a coprire angosce profonde depressive o persecutive e che tale occultamento abbia in sé grande probabilità di predisporre colui che lo fa a distorsioni gravi dell’esame di realtà e quindi a non trovarsi nelle condizioni di poter prevedere correttamente le conseguenze possibili dei suoi atti.” (Fornari, 1966, p. 9) Fornari, nel suo personale contributo a questo tema, mette in luce come la scoperta della bomba atomica metta in crisi i precedenti meccanismi psicologici sottesi alla guerra; in quanto, a partire dalla bomba atomica, nessuno avrebbe più potuto porsi come “salvatore dell’oggetto buono” attraverso una guerra che oggi potrebbe in un sol gesto distruggere non solo “i nemici” ma anche sé stessi e tutta l’umanità.


Che ne è stato di queste considerazioni oggi?

M, un piccolo paziente di 7 anni ripercorre questi temi nella sua psicoterapia,3 alle prese con la difficile gestione della propria aggressività, fortemente riattivata, tra l’altro, da alcune vicende che si sono verificate in classe. Un compagno, forse in seguito ad una provocazione, ha spinto violentemente un altro bambino che si è “rotto la testa”, finendo in ospedale. L’aggressore è stato espulso da scuola. Un giorno M lo ritrova incontrandolo inaspettatamente nello stesso Centro presso il quale anche lui è seguito. Un po’ è spaventato, un po’ è contento: “È stato bello rivederlo perché non lo vedevo da un sacco di tempo…”– commenta. Tuttavia il giorno dopo improvvisamente si ammala e salta la sua seduta.

L’incontro inaspettato col compagno “cattivo”, espulso perché pericolosamente aggressivo, configura per M il rischio di essere pericolosamente invaso – proprio nel luogo in cui va per la psicoterapia – da un brusco ripresentarsi delle proprie parti aggressive e violente, precedentemente scisse e proiettate nel compagno. L’ammalarsi improvviso rappresenta una sorta di blackout (“mi sono spaventato” – dice), un cedimento di fronte a questo “incontro” e, insieme, una difesa, un modo per allontanarsi, distanziarsi almeno temporaneamente.

Nel gioco che nella seduta successiva M fa con una pallina “monella”, facendola rimbalzare ripetutamente nella stanza, sulla porta, sugli oggetti e sulla terapeuta, cogliamo lo sforzo del bambino di esprimere, controllare e modulare vari aspetti della propria aggressività. Inizialmente “è una pallina piena di gioia”, “contenta di essere venuta qui”… “non ci era mai venuta” – dice. Man mano però la fa rimbalzare sempre più forte, la pallina schizza a destra e a sinistra rischiando di colpire gli oggetti della stanza. M la insegue. La terapeuta gli dice di fare più piano, commenta: “Questa pallina sembra volerci colpire”. M sorride e dice di no. La pallina va sotto al lettino, poi sotto un mobile, M la insegue, imitandone il percorso. La prende e la lancia contro la porta, fa un gran rumore. “È una pallina molto monella” – dice. “Come mai, per caso è arrabbiata?”. Non risponde. La pallina inizialmente semplicemente “contenta”, “piena di gioia”, man mano si rivela essere “una bomba”. Il gioco cambia: M dice che lui “dovrà prendere la bomba al volo, prima che esploda.” Ripetutamente fa rimbalzare la pallina e poi la prende al volo, evitando l’esplosione. Dice che lui salverà il mondo dalle bombe, perché le prenderà prima che esplodano. La terapeuta si chiede ad alta voce chi è che sta lanciando queste bombe, perché sembra che lui stesso lanci la bomba e poi la disinneschi. M risponde: “È Putin che lancia le bombe, il re di tutti i cattivi!” E poi: “Hai detto bomba, o bomba atomica?” – domanda. La terapeuta chiede quale sia la differenza. “La bomba fa esplodere solo un palazzo, mentre la bomba atomica fa esplodere mezzo mondo.” “Forse anche tu quando ti arrabbi vorresti lanciare qualche bomba atomica…” Risponde che non è arrabbiato e che sarebbe davvero pazzo se lanciasse una bomba atomica, anche perché così facendo distruggerebbe anche se stesso. Continua a lanciare la pallina contro la porta, stavolta dice alla terapeuta che deve essere lei a disinnescare le bombe che lui lancia. Pian piano il gioco si fa più tranquillo assumendo la forma di uno scambio.


Provando a leggere la situazione presente alla luce della teorizzazione di Fornari potremmo ipotizzare che attualmente il lutto è anche quello della nostra illusione di onnipotenza nel rapporto con la Natura. Ci siamo scoperti fragili, come non pensavamo di essere, deboli e spaesati di fronte al virus. Un nemico sconosciuto e invisibile, arcaico, è come risorto da epoche remote cogliendoci impreparati. Già durante la pandemia erano comparsi abbozzi di elaborazione paranoidea: il virus è “un nemico”, l’uso di immagini belliche. Tentativi di individuazione di un colpevole esterno a noi, chi ha prodotto il virus? Sospetti diffusi, ipotesi negazioniste, fantasie di oscuri complotti tendenti al controllo della popolazione su scala mondiale attraverso i vaccini.

Ma quello che oggi colpisce è la sequenza tra i due eventi, cioè tra l’elaborazione psichica dei due eventi. Non avevamo ancora iniziato a rallegrarci per lo scampato pericolo che è esplosa la guerra e subito ci siamo dovuti occupare di un altro nemico che ha “imprevedibilmente” oscurato il primo. Della pandemia infatti non si parla quasi più.

La guerra quindi se per un verso genera in alcuni una cocente delusione, una nuova ferita rispetto alle illusioni onnipotenti di avere se non sconfitto almeno imbrigliato la propria ed altrui distruttività, per un altro verso può presentarsi come una comoda via di fuga per non affrontare il dolore e il lutto determinati dal senso di caducità delle nostre illusioni. Attraverso immagini ripetute e martellanti di incredibili devastazioni e di morte si riapre un enorme scenario paranoideo che favorisce l’evacuazione del lutto e soprattutto della colpa all’esterno, in un altro persecutore, che diventa il supporto, certamente compiacente e adatto, per la proiezione degli aspetti cattivi di noi. È lui che vuole distruggere i nostri oggetti buoni, noi stessi, il mondo intero. Noi non abbiamo né colpa né responsabilità.

Questa operazione, in qualche modo “liberatoria”, si traduce tuttavia in un pericoloso allentamento dei legami libidici con gli oggetti (interni ed esterni), in un aumento della persecutorietà, nell’istituirsi di una devastazione – una desertificazione – all’interno di ciascuno così come all’esterno. L’estrema distruttività delle nuove armi rende evidente quanto sia illusoria l’idea che la guerra sia un modo di salvare i propri oggetti buoni e quanto la distruzione dell’altro si traduca immediatamente nella distruzione di sé.

Il piccolo M ci indica, nella sua vicenda clinica personale, che la soluzione passa attraverso la possibilità di ritrovare nell’altro un aiuto per “disinnescare le bombe” e riprendere uno scambio che sia un gioco condiviso.


Gli artisti, in questo caso scrittori o poeti, ci aiutano a comprendere – grazie alle immagini create dalla loro arte – le nostre angosce profonde e le dinamiche da esse messe in moto.

Lo scrittore Paul Auster, in un brano tradotto recentemente da La lettura,4 descrive il suo viaggio a Leopoli nel 2017. Un viaggio all’indietro nella storia ma imprevedibilmente anche nel futuro di oggi. Invitato a partecipare a un Congresso aveva accettato anche per andare a visitare la vicina città di Ivano-Frankivsk da dove nel lontano 1900 suo nonno era partito per emigrare negli Stati Uniti. La visita all’antica città è un balzo all’indietro nella storia in questa regione centro europea – la Galizia – lungamente martoriata da guerre, violenze e spartizioni. Qui incontrerà, tra gli altri, un poeta buddista, studioso della storia della città. Il poeta non potrà dirgli nulla della sua famiglia ma gli racconterà la storia dei lupi di Stanislav (uno dei molti diversi nomi che la città ha avuto in poco più di un secolo). Scrive Paul Auster:


“I lupi sono l’apice dell’incubo, l’esito estremo della stupidità che porta alle devastazioni della guerra.

Eravamo seduti sulla terrazza di un caffè che dava sulla piazza più grande della città, il cuore di Stanislau-Stanislav-Ivano-Frankivsk, un ampio spazio inondato di sole, senza macchine, affollato da gente che passeggiava in tutte le direzioni e che, nei miei ricordi, non emetteva alcun suono; una folla silenziosa che mi passava davanti mentre ascoltavo il poeta raccontare la storia. Avevamo già stabilito che conoscevo quello che era capitato alla metà ebraica della popolazione tra il 1941 e il 1943, ma quando nel 1944 l’esercito sovietico arrivò per conquistare la città, appena sei settimane dopo lo sbarco alleato in Normandia, non solo i tedeschi se n’erano già andati, ma anche l’altra metà della popolazione era svanita. Erano scappati tutti in una direzione o nell’altra, a est o a ovest, a nord o a sud, quindi i sovietici conquistarono una città vuota, un dominio del nulla. La popolazione umana si era dispersa ai quattro venti, e al posto delle persone la città era abitata da lupi, centinaia, forse migliaia di lupi.5

Orribile, pensai, un’immagine che rappresentava l’incubo peggiore, e all’improvviso, come se emergesse da un sogno, mi tornò alla mente la poesia di Georg Trakl Fronte orientale, che avevo letto per la prima volta cinquant’anni prima e poi avevo continuato a rileggere finché non l’avevo imparata a memoria e l’avevo tradotta per me. Una poesia sulla Prima guerra mondiale, scritta nel 1914, su Gròdek, una città della Galizia non lontano da Stanislau, che termina con la strofa:

Un deserto costellato di spine cinge la città.

Da scale insanguinate la luna

Insegue donne terrorizzate.

Lupi selvaggi irrompono attraverso le porte.

Come faceva a conoscere quegli eventi? – chiesi.

Suo padre, mi disse, suo padre gliene aveva parlato molte volte, e continuò a spiegare che suo padre nel 1944 era un ragazzo poco più che ventenne, e dopo che i sovietici avevano preso il controllo di Stanislau, ribattezzata Stanislav, era stato arruolato nell’unità dell’esercito incaricata di sterminare i lupi. Quest’impresa aveva richiesto diverse settimane, forse mesi, non ricordo bene, e una volta che Stanislav fu di nuovo pronta per essere abitata da esseri umani, i sovietici la ripopolarono con militari e con le loro famiglie”.


Lo scrittore ci dice della sua incredulità, del desiderio di sapere se quello che il poeta gli aveva raccontato fosse la verità, oppure un altro tipo di verità, una verità emotiva, una verità mitica, eppure non meno vera. Prove non è stato possibile trovarne. Conclude – e qui non possiamo non essere d’accordo con lui – che non importa sapere se veramente a Stanislav fossero rimasti soltanto i lupi. Questa storia aveva, e ha ancora, per lui come per noi oggi, una sua profonda verità. La guerra trasforma gli uomini in animali feroci e di umano sembra non restare più nulla. La città è vuota, desolata, e “lupi selvaggi irrompono attraverso le porte”6 (Ci perdonino i lupi, quelli veri, per averli usati per descrivere tanta crudeltà che invece forse è soltanto umana).

Le operazioni mentali che sottostanno alla “guerra” producono un immediato senso di sollievo e di unità all’interno del gruppo dato che “i cattivi” sono fuori. Tuttavia non favoriscono l’elaborazione e l’integrazione dei vissuti di perdita e di colpa. Non li superiamo se non ci assumiamo una responsabilità, facendoci carico delle nostre spinte aggressive e delle nostre fragilità, dando spazio a Eros che crea legami.

Come scrive Winnicott: “Il modo più facile che l’individuo ha per vedere i propri aspetti spiacevoli è quello di vederli negli altri. Il modo più difficile è quello di vedere che tutta l’avidità, l’aggressione e la falsità esistenti nel mondo potrebbero essere connesse con la propria responsabilità, anche se in effetti non lo sono. La stessa cosa vale per lo Stato come per l’individuo.” (Winnicott, 1986, p. 225)

La guerra crea devastazione e morte non solo fuori di noi ma anche nel nostro interno, una distruzione e una devastazione che rischia di invaderci.

In questo senso il lavoro del lutto (come ha evidenziato Freud e anche M Klein) è il punto centrale del processo di civilizzazione. Implica il passaggio dalla colpa persecutoria alla colpa depressiva, il passaggio dall’individuo al gruppo, nel momento in cui diventa evidente (come sottolinea Fornari) che la distruzione dell’altro è anche la mia distruzione, sia in senso concretamente fisico (vedi la minaccia nucleare) sia in senso psichico perché l’oggetto buono è il nucleo del Sé.

Integrazione significa che questi fenomeni ci riguardano e possiamo comprenderli passando per noi. Integrazione significa anche, passando per noi, vedere in noi, e in ciascuno, la compresenza di più spinte diverse, tra cui anche quelle distruttive. Contro la polarizzazione paranoide della guerra.


In questo momento abbiamo bisogno che entrino in azione delle forze che rinsaldano i legami.

Abbiamo bisogno del pensiero che crea legami e avvia un processo di trasformazione dell’angoscia. Di “essere disposti a lottare senza essere bellicosi e di essere dei guerrieri interessati all’arte della pace.” (ivi, pag. 227) Abbiamo bisogno non della guerra ma dell’alleanza tra i popoli. Abbiamo bisogno del “lavoro della pace” che, come la psicoanalisi ci dice, passa all’interno di tutti noi, attraverso l’assunzione da parte di tutti del senso di responsabilità. Quando la comunità “tiene” e rafforza i legami ritroviamo in essa un potente antidoto alle spinte disgreganti e distruttive.

Più che mai suonano attuali le parole di Freud:


“Il problema fondamentale del destino della specie umana a me sembra sia questo: se, e fino a che punto, l’evoluzione civile riuscirà a padroneggiare i turbamenti della vita collettiva provocati dalla pulsione aggressiva e autodistruttrice degli uomini. In questo aspetto proprio il tempo presente merita forse particolare interesse. Gli uomini adesso hanno esteso talmente il proprio potere sulle forze naturali, che giovandosi di esse sarebbe facile sterminarsi a vicenda, fino all’ultimo uomo. Lo sanno, donde buona parte della loro presente inquietudine, infelicità, apprensione. E ora c’è da aspettarsi che l’altra delle due “potenze celesti”, l’Eros eterno, farà uno sforzo per affermarsi nella lotta con il suo avversario parimenti immortale. Ma chi può prevedere se avrà successo e quale sarà l’esito?” (Freud, 1922, Il Disagio della civiltà, OSF 8, pag. 630)7


Riassunto

Il lavoro, partendo dalla situazione attuale che ha visto succedersi senza soluzione di continuità due catastrofi quali la pandemia e la guerra che sollecitano diffusi vissuti di smarrimento, delusione e perdita, propone una lettura di questi fenomeni alla luce della teorizzazione di Fornari sulla guerra come elaborazione paranoicale del lutto e della perdita. Un breve stralcio clinico e alcuni riferimenti letterari sviluppano il tema della difficile integrazione degli impulsi aggressivi e della necessità a tal fine dei legami di Eros e di un processo di responsabilizzazione che permetta l’elaborazione depressiva della colpa.


Parole chiave

Pandemia, Guerra, Lutto, Elaborazione paranoicale del lutto.

Bibliografia

Auster P. (2022). I lupi di Stanislav. Trad. it.: La Lettura. 540 domenica 3 aprile 2022.

Esposito R. (2022). Il ritorno della storia, European Journal of Psychoanalysis.

Fornari F (1970). Psicoanalisi della guerra. Feltrinelli, Milano.

Freud S (1915a). Lutto e melanconia. OSF 8, Boringhieri, Torino.

Freud S (1915b). Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, OSF 8, Boringhieri, Torino.

Freud S. (1915c) Caducità, OSF 8, Boringhieri, Torino.

Freud S (1929). Il disagio della civiltà, OSF 8, Boringhieri, Torino.

Klein M (1963). Sul senso di solitudine. Trad. it. in: Il nostro mondo adulto. Martinelli, Firenze.

Winnicott (1986). Discussione sugli scopi della guerra. In: Dal luogo delle origini. Trad. it 1990, Cortina, Milano.




Diomira Petrelli

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