Nowhere special. Una storia d’amore

Regia di Uberto Pasolini, 2020

margherita rossi




Quando nel nostro lavoro terapeutico incontriamo un bambino che sta affrontando la perdita di un genitore, siamo chiamati ad attraversare un terreno delicatissimo, nel quale è necessario che anche noi terapeuti avanziamo verso quel dolore che spesso non ha le parole per esprimersi. Abbiamo il compito di trovare noi al posto del bambino quelle parole ed accompagnarlo a dare un senso e una forma alle cose che accadono dentro di lui e fuori di sé. Allo stesso tempo però è anche necessario che noi restiamo fuori da quel dolore, per poterci costituire come un approdo che traguarda una speranza di ripresa. Questo lavoro è tanto più delicato quando il bambino è molto piccolo e pertanto non ha ancora avuto nessuna esperienza né cognizione della morte. Dove sia il papà (o la mamma) il bambino non se lo sa spiegare: percepisce un’assenza, che spessissimo viene vissuta come un abbandono che genera rabbia, ma anche vissuti di colpa.


È un pensiero comune che nei bambini piccoli i traumi legati a perdite così significative siano meno dolorosi, che lasceranno un segno meno profondo perché non sapendo cosa sia la morte, essi non si rendono conto di ciò che sta accadendo. Si può tendere a pensare che il bambino “dimenticherà presto” e che quell’assenza potrà essere sostituita, quel vuoto colmato da altro, da altri. Mentre noi crediamo, con Maria Luisa Algini1 (2016, p. 7) che “Il lavoro del lutto, anche nei bambini, è un possente travaglio silenzioso, doloroso e in gran parte inconscio. Affinché le amputazioni divengano cicatrici. E il loro segno indelebile sia parte del ciclo stesso della vita”.


E dunque se è vero, citando Martin Scorsese, che “i film toccano i nostri cuori, risvegliano la nostra visione e cambiano il modo in cui vediamo le cose” allora “Nowhere Special è un film necessario che, senza spingere sul tasto del dolore, descrive semplicemente una storia, la storia di un lutto infantile che deve ancora avvenire: noi ne siamo spettatori, con la possibilità che ci viene offerta di fermarci a chiederci quale sia il senso più profondo dell’amore per un figlio e a comprendere l’importanza di un lavoro che accompagni anche i bambini nell’indispensabile, strutturante processo del lutto. 


Presentato alla 77esima Mostra del Cinema di Venezia, uscito nelle nostre sale a novembre 2021, questo film ci accompagna per mano attraverso la vicenda di Michael, un bambino di circa 3 anni, e del suo papà John che, da solo e nel tempo che la malattia gli lascia, lavora con determinazione, intenzionalità e sensibilità, per preparare il suo bambino al distacco e alla possibilità di sopravvivere alla sua stessa perdita. John sarà impegnato a scegliere una famiglia a cui affidare Michael, a spiegargli cosa sia la morte e ad elaborare, per quanto possibile insieme, la loro separazione.


Il tempo di questa elaborazione è un tempo corto, ma denso, nel quale John avrà la possibilità e la capacità di pensare, di decidere del futuro di suo figlio e di quale eredità lasciargli. E in questo tempo, nei molti incontri che, insieme ad una giovane assistente sociale, organizzerà con le coppie che potrebbero adottare Michael, sviluppa una più profonda consapevolezza di cosa significhi essere un buon genitore e dunque scegliere chi potrà, dopo di lui, assolvere a questo cruciale compito, per Michael. Lo spettatore entra con John e Michael nelle case e nelle vite di possibili genitori affidatari ed è testimone di quanto, nell’immaginario di una coppia, l’idea di un figlio abbia a volte più a che fare con ferite narcisistiche, con bisogni primari di ciascuno dei genitori che con l’amore vero e proprio e la capacità di sintonizzarsi sull’altro. Mentre siamo spettatori di questo carosello siamo chiamati a domandarci cosa definisca un ambiente buono per accogliere un bambino, quali caratteristiche, qualità sono necessarie, cosa è invece superfluo, superficiale nella costruzione di una buona funzione genitoriale. Vediamo succedersi coppie desiderose di un figlio, quelle che predispongono stanze ricche di oggetti, che tuttavia restano inanimati, intoccabili, feticci di immaginari genitoriali che poco o nulla hanno a che fare con un bambino reale, con la sua originalità, con le sue preferenze, i suoi bisogni personali, individuali, unici. Oppure quelle che seducono John lasciandogli intravvedere la garanzia di un futuro economicamente stabile per Michael e una progressione nella gerarchia sociale, cui probabilmente egli ha anche ambito per sé, per suo figlio, in passato.


Ma l’eredità di John invece ha poco a che fare con il piano concreto, lui che per vivere lava i vetri di negozi e di appartamenti, attraverso i quali osserva la vita di famiglie più fortunate della sua, di altri bambini più fortunati del suo. Il lascito di John è solo affettivo, ma ricchissimo. Sceglierà alla fine di affidare il bambino ad Ella, una giovane donna sola, che vive in un piccolo appartamento nei sobborghi della città. Ella offre la propria incompletezza, in un ambiente insaturo, dove Michael potrà trovare un ascolto, un’attenzione tutta per sé. Perché è questo che sembra possa fornire Ella, che mostra già dalla prima volta la capacità di incontrare Michael dove lui sta, con le sue preferenze, le sue preoccupazioni, le sue capacità; incontrarlo anche negli aspetti mancanti senza denegarli, o pretendere di colmarli, ma semplicemente accogliendoli, consapevole che piano piano diventeranno ferite, cicatrici, parti di sé e della propria storia, per continuare a vivere.


Ci chiediamo da dove John attinga questa capacità di nutrire, di funzionare nonostante tutto, di risarcire. Possiamo forse immaginare che quell’esperienza di abbandono subìto, che viene solo accennata quasi distrattamente, da parte della madre di Michael che semplicemente se ne va per non tornare più, costituisca lo sfondo depressivo da cui parte l’azione riparativa di John e la possibilità di connettersi con il senso di perdita vissuto dal figlio e da lui stesso. Dunque, possiamo pensare che in fondo egli tenti, attraverso il risarcimento anticipatorio verso la perdita attuale che il suo bambino dovrà affrontare, che è invero perdita già avvenuta, di curare anche sé stesso, di restituire qualcosa anche a sé stesso, per le perdite e i lutti che ha subito, per arginare per quanto possibile le conseguenze nel figlio di un dolore psichico senza fine. E riuscirà, mettendoci tutta la sua forza vitale, a donare a Michael una vita sufficientemente buona e un’idea di padre (ma anche di madre, grazie ad Ella) che potrà essere ritrovata, ricordata e ricreata nel tempo a venire.



1Algini M L (2016). Le ferite invisibili. Torino: Robin Edizioni.