Segnalazioni bibliografiche*


Riviste segnalate: Adolescence, Journal of the American Psycho-Analytical Association,

Journal of Child Psychotherapy, Interazioni, International Journal of Psycho-Analysis,

Journal de la Psychanalyse de l’Enfant, Kinderanalyse, Psichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza,

Psychiatrie de l’Enfant, Psychoanalytic Study of the Child, Rivista di Psicoanalisi,
Winnicott Studies, Bulletin de la Fédération Europeenne de Psychanalyse (FEP),
Revue Française de Psychanalyse.


Premessa introduttiva

Gli articoli che segnaliamo in questo numero sono legati dal comune denominatore della rilettura e della rinarrazione del trauma infantile nell’adulto a partire dall’esperienza clinica con i bambini: il primo, quello di Salomonsson, attraverso un’ulteriore passaggio evolutivo del suo lavoro di terapia congiunta genitori-bambino, il secondo, quello di Nicoli, attraverso un’affinamento della capacità dell’analista, in casi particolarmente deprivati, di sfumare la propria presenza con delle forme interpretative proprie della psicoanalisi del bambino e dell’adolescente.

Quello della realtà degli eventi traumatici è un tema antico e controverso nella teoria psicoanalitica, che ha visto Freud oscillare tra dimensioni opposte, dal trauma reale fino alle fantasie di fatti mai verificati, lasciando aperta la strada a quelle posizioni teoriche che individuano nelle carenze dell’ambiente di accudimento le possibili cause della sofferenza. Eppure, oggi, in un momento storico che ha visto l’umanità travolta da una pandemia inarrestabile e dalla riedizione del passato con una guerra che si configura ancora, di nuovo, come un ritorno del rimosso che ci fa prendere atto che gli “impulsi primitivi, selvaggi e malvagi dell’umanità non sono affatto scomparsi ma continuano a vivere rimossi nell’inconscio di ognuno di noi” (Freud, 1915, p. 121), il trauma è di un’attualità concreta, reale, raggelante. La questione di una possibile fine della vita, non come tema in trasparenza nella nostra trama esistenziale, ma come dato reale, reiterato giorno per giorno da inesorabili bollettini mediatici, si è infiltrata nel nostro vivere ora con la qualità invisibile e sempre in agguato del virus, ora con la violenza inattesa e assordante delle esplosioni. Come adulti ci troviamo a vivere le conseguenze emotive di eventi che hanno minacciato e minacciano prepotentemente l’efficacia delle difese dall’angoscia, depotenziandoci nelle nostre capacità di spiegare ai bambini, farli sentire difesi e al sicuro. I bambini e i ragazzi sono stati esposti ad un veloce accumularsi di traumi, che ha visto i grandi – sbigottiti ed increduli di fronte allo sfaldarsi della propria realtà e delle proprie progettualità – non trovare accesso agli strumenti disponibili per proteggerli.

Come professionisti siamo perciò convocati ad un atto dovuto nei confronti dei nostri giovani pazienti, ad un lavoro di ricerca di senso e di integrazione di pezzi e di schegge fuori controllo. Siamo di fronte alla necessità di riportare fuori quello che è dentro, la “zona di esterno” inelaborabile che è intrusa all’interno dell’apparato psichico (Semi, 1989), e di promuovere terapeuticamente il riavvio di un processo elaborativo che consenta di trasformare il perturbante in un’esperienza di pensabilità, riportando dentro il significato di quello che è fuori.

Flora Gigli


B. Salomonsson (2020).                    

Psychoanalysis with adults inspired by parent-infant therapy: Reconstructing infantile trauma.

The International Journal of Psychoanalysis, 101, 2, 320-339.

Questo articolo è il primo di una serie che l’A. ha dedicato alla Terapia Psicodinamica con Bambini e Genitori, la Psychodynamic Therapy with Infants and Parents (PTIP). In questo lavoro viene messo in evidenza come la terapia congiunta genitori-bambini non solo permette di ottenere benefici clinici che interessano la relazione e lo sviluppo del bambino, ma fornisce al terapeuta uno strumento prezioso nel lavoro con gli adulti.

Partendo dal postulato che l’intervento PTIP sia un’applicazione della tecnica psicoanalitica, vengono identificate quattro macro aree d’interesse per la terapia con pazienti adulti. In primo luogo l’esperienza PTIP facilita la coppia analitica nella ricostruzione delle esperienze traumatiche infantili che continuano ad avere un peso notevole nel presente del paziente. Sensibilizza la percezione del clinico nei confronti di quegli stati di angoscia primitivi che il paziente può esprimere attraverso registri preverbali della comunicazione. Aumenta la ricezione della funzione contenitore-contenuto incarnata negli scambi tra madre e bambino, stabilizzando all’interno del terapeuta la sua capacità di contenimento che consente un utilizzo meno sclerotizzato della tecnica psicoanalitica.

Inoltre, come osservatore della diade madre-bambino, predispone il clinico ad assumere una terza posizione rispetto alla coppia terapeuta-paziente e alle intense dinamiche transfert-controtransfert.  

Nonostante la psicoanalisi abbia de iure stabilito che il funzionamento psichico degli adulti sia strettamente correlato con lo sviluppo della mente nel bambino, solo con M. Klein, A. Freud e D. Winnicott è stato colmato lo iato tra il “bambino ricostruito” in analisi attraverso il ricordo dei pazienti e il lavoro clinico con i bambini.  

La PTIP condivide con la psicoanalisi infantile l’attenzione per l’ambiente che circonda il bambino e l’importanza data alle comunicazioni non verbali, ma si differenzia dal momento che il lavoro clinico PTIP è incentrato sulla diade madre-bambino. Nel trattamento PTIP il clinico ha la possibilità di assistere in vivo alla drammatizzazione della relazione tra genitori e figli, guadagnando una posizione da osservatore partecipante tenuto ad intervenire nel caso fosse necessaria una regolazione esterna alle dinamiche disfunzionali messe in atto dalla coppia.

L’A. propone la PTIP come una prospettiva che permette al terapeuta di cogliere e sperimentare nelle dinamiche di transfert-controtransfert, gli aspetti traumatici infantili alla base del malessere dei pazienti adulti.

Per sostenere tale ipotesi viene presentato il caso di Laura, donna di 40 anni affetta da una grave depressione trattata farmacologicamente, che sentendo compromesso il suo rapporto con la figlia di due anni e mezzo, decide di iniziare un percorso terapeutico. In un primo periodo l’intervento ha seguito il modello PTIP; ciò ha permesso al terapeuta e alla paziente di osservare nelle dinamiche relazionali madre-figlia un rovesciamento della funzione contenitore-contenuto. Il senso di colpa non elaborato della madre, proiettato sulla figlia, diventava una richiesta implicita alla bambina di contenere i vissuti depressivi della madre, attraverso una risposta di negazione maniacale.

L’emergere di tale dinamica nella terapia PTIP, ha sollevato la bambina da tale responsabilità restituendole maggiore serenità, e contestualmente, permesso a Laura di sentirsi una madre più competente.

È seguita una terapia personale di Laura che presto si è trasformata in un’analisi quattro volte a settimana. L’intenso lavoro psicoanalitico ha messo in luce, a livello transgenerazionale, l’identificazione inconscia della paziente con la depressione della madre. Il disconoscimento familiare della patologia materna ha rappresentato per Laura un’esperienza traumatica che paziente e analista hanno vissuto intensamente nelle dinamiche transferali e controtransferali contenute dal setting analitico.

Nell’articolo, l’A. afferma che la terapia PTIP, intesa come esperienza clinica ripetuta di osservazione delle dinamiche relazionali madri-bambini, abbia una un impatto forte sulle fantasie del terapeuta e sulla sua capacità di cogliere come lo stato mentale della madre influenzi lo sviluppo del bambino.

Ma questo è sufficiente per giustificare la tesi che la terapia PTIP sostenga significativamente l’emergere del trauma passato connettendolo al dolore presente nei pazienti adulti?

L’A. verifica tale ipotesi in relazione a tre punti di ordine epistemologico, sollevati da D. Spence, circa la validità delle conclusioni tratte dalle presentazioni dei casi clinici e al rischio che queste, in realtà, seguano il bisogno del terapeuta di trovare nuove narrative per i sintomi del paziente.  

In prima istanza, le “regole di inferenza” che convalidano l’ipotesi di un collegamento tra gli eventi traumatici dell’infanzia con lo stato presente della paziente sono confermate dai ricordi del passato che Laura riporta in seduta. 

In aggiunta, la ricostruzione diagnostica nella formulazione psicodinamica del caso è stata confrontata con altre ipotesi di ordine edipico che però non hanno trovato conferma durante il trattamento.

In fine l’A., attraverso l’analisi del transfert e dell’odio espresso dalla paziente verso la sua dipendenza nei confronti del terapeuta, trova conferma all’ipotesi ricostruttiva secondo cui la depressione post natale della madre si era trasformata nell’attuale depressione di Laura. 

Rispetto quest’ultimo aspetto l’A. definisce ulteriori “regole trasformative” che sono alla base dei processi di ricostruzione attivati nel percorso psicoanalitico. La convalida si fonda sulla continua dialettica tra due campi distinti ma interrelati, la ricerca clinica e la ricerca sperimentale.

Gli studi empirici su vasta scala, i paradigmi sperimentali che utilizzano le video registrazioni delle interazioni madri-bambini e le esperienze PTIP, rappresentano prospettive diverse che, trovando punti di convergenza si convalidano reciprocamente, definendo un fenomeno complesso e multidimensionale. La terapia PTIP quindi, ha un effetto significativo nel trattamento con i pazienti adulti, nella misura in cui sollecita la mente dell’analista mentre è ingaggiato nel processo di ricostruzione autobiografica del paziente.

La PTIP, aumentando la sensibilità del clinico, facilita la possibilità che la psicoanalisi rappresenti per il paziente la preziosa esperienza umana del non essere soli quando ci emozioniamo trovando nuovi assetti narrativi, che liberano intense quote affettive.

L’articolo ci sollecita nuovamente sull’importanza capitale del lavoro svolto con i bambini e le sue implicazioni dirette nella terapia con gli adulti. Viene invertita in qualche modo la prospettiva: non più un bambino ricostruito a partire dall’adulto ma un paziente adulto che può essere rinarrato a partire dall’esperienza clinica con i bambini.

Inoltre, alla luce della tesi secondo cui la PTIP permette al terapeuta di mantenere un assetto che facilita processi trasformativi e aumenta la sua sensibilità clinica, possiamo sottolineare quanto l’esperienza di infant observation, prerogativa del training della formazione psicoanalitica infantile, sia sostanziale anche nel lavoro con pazienti adulti.

Marco Carboni

L. Nicoli (2020).

Agire, reagire e riflettere. La regressione      nel paziente con traumi precoci.

Rivista di psicoanalisi, LXVI, 4, 853-876.

L’interessantissimo articolo di Nicoli, attraverso la generosa esposizione di un caso clinico, si pone come un dialogo tra le teorie sul trauma di Freud, Balint e Winnicott, la realtà clinica, l’esperienza nel campo della psicoanalisi infantile e i modelli contemporanei relazionali ed intersoggettivi. Seguendo la linea di questa complessa lettura l’A. ha potuto approfondire la capacità di contatto e di trasformazione delle aree più precoci del paziente.

Nel lavoro con adolescenti e adulti precocemente deprivati e traumatizzati, con cui la comunicazione si attua attraverso la concretezza di gesti e azioni, la questione del rapporto tra relazione terapeutica e funzione interpretativa è centrale. La risposta dell’analista, nel qui ed ora della seduta, può essere interpretativa, permissiva o inibitoria, a seconda di ciò che le continue espressioni regressive e comportamentali del paziente hanno sollecitato in lui.

Certamente, riflette l’A., ogni momento della seduta e della sua preparazione porta ad operare scelte, anche concrete, che contribuiscono allo sviluppo di un’atmosfera analitica che parla dell’analista, del suo modo di essere tecnico, teorico e personale, ben al di là dell’ideale pretesa di neutralità. Ciò consente al paziente di effettuare un training sul linguaggio del suo analista, di conformarvisi, proiettando, introiettando, talora compiacendo. Nicoli riflette sulle continue decisioni prese in tempo reale, sulle comunicazioni concrete, su come vengono accolte o respinte dall’altro, ritenendo che sia necessario un costante monitoraggio in après coup sui significati consci e inconsci della relazione in essere. Questo favorisce la “capacità di contenere, rappresentare e trasformare quanto di concreto, muto e irrapresentabile il paziente porta in seduta”. La competenza dell’analista nel lavorare perché si costituisca una relazione stabile ed emotivamente significativa, sapendosi sintonizzare con livelli di funzionamento e di accettazione dell’alterità continuamente variabili, può dunque consentire al paziente precocemente traumatizzato di sviluppare una capacità di pensiero trasformativo. Con la narrazione della sua storia, Mariano, un giovane uomo di bell’aspetto e apparentemente realizzato affettivamente e professionalmente, rivela l’Io indebolito di un bambino che ha vissuto una sequenza cumulativa di traumi precoci, nella violenza di un’infanzia drammatica, in cui l’abuso, l’incesto e l’assenza di protezione di una madre impazzita, sono stati gli unici paramentri di riferimento. Mariano si fa “accogliere” dall’analista con l’intensità seduttiva di “un orfano in fuga”, che ha bisogno di “annidarsi” nel suo cuore e nella sua mente, aprendo lo scenario distonico tra l’immagine di uomo in gamba e ben adattato e quella del bambino gravemente traumatizzato. Dopo i primi mesi trascorsi seduto sul lettino a raccontare la sua inenarrabile storia di bambino, l’analisi comincia a virare in modo più marcato verso la regressione e il pensiero magico, concreto e onnipotente. Sono i meccanismi arcaici che gli consentono la difesa dalle angosce più primitive. Si toglie le scarpe in seduta, fantastica di caffè presi insieme, di viaggi condivisi in posti esotici, narrando con eloquio seduttivo scenari tesi a passivizzare l’analista, a renderlo spettatore di una difesa maniacale in cui la magia sostituisce il reale. Basta non nominarli e i traumi spariscono, lasciando il posto a luoghi fatati e dotte citazioni poetiche che, in senso strettamente winnicottiano, ammaliano l’altro, lo controllano, l’afferrano, lo immobilizzano, neutralizzando la minaccia di un oggetto primario violento o abbandonico. Allo stesso tempo, l’altro, l’analista deve essere sempre pronto alle sue condizioni, per mostrare di amarlo tantissimo o, altrimenti, farlo sentire rifiutato e nuovamente annullato. La separazione, la pausa estiva, si rivela infatti attivatrice di massicce difese anoressiche, no entry, con cui il paziente si difende dall’analista, vissuto nel transfert come oggetto primario e pericoloso. Questo è il punto, sostiene Nicoli, in cui l’analista deve poter prendere atto dell’invalicabile muro eretto contro l’invasione di un’alterità insostenibile, accettando di sfumare la propria soggettività in una “soggettività temperata”, come definita da Fabozzi, consentendosi di ammorbidire il proprio assetto, di non organizzare anzitempo significati ancora indicibili. È necessario un delicato lavoro sulla qualità della relazione, “un’attenzione speciale alle gradazioni di vicinanza, contenimento, calore, identificazione, reazioni controtransferali, per evitare la chiusura anoressica o la compiacenza inautentica”. Nelle toccanti sequenze cliniche con Mariano, l’A. evidenzia come le forme interpretative e relazionali proprie della tecnica di analisi dell’adolescente o del bambino siano, in casi così deprivati, più efficaci per contattare gli aspetti meno evoluti della personalità del paziente e per comunicare con lui a livelli più profondi di contatto. Regolare continuamente la distanza, in un vigile monitoraggio momento per momento, ha consentito all’analista di cercare quella flessibilità analitica che gli consentisse di essere nè troppo lontano, nè troppo vicino, perché il paziente, non sentendosi abbandonato o oppresso, potesse accedere alla funzione trasformativa della relazione terapeutica. Dunque l’aspetto nodale del lavoro sta nel concedere al paziente, perché non se ne senta divorato, la possibilità di controllare l’analista, ma non fino a passivizzarlo o deanimarlo. Questa delicata oscillazione consente all’analista di restare presente e vigile, “vivo”, ma non tanto attivo e chiaramente definito da mettere in fuga il paziente. Nicoli sottolinea che l’accoglienza di modalità comunicative manipolatorie, confuse, agite, può contribuire allo sviluppo di un processo analitico più evoluto. Allo stesso tempo, interpretare, in pazienti con traumi precoci, assume il duplice significato di decifrare e di essere interpreti, prendendo parte allo scenario interpersonale che si sta svolgendo e offrendo “ospitalità” nella propria mente a ciò che nel paziente è stato rimosso, scisso, dissociato o che non ha mai trovato rappresentazione. Questa ospitalità consentirà nel tempo di costituire le fondamenta di una capacità rappresentativa e transizionale in cui il paziente potrà ospitare la violenza della propria storia emotiva.

Flora Gigli