Segnalazioni bibliografiche*


Premessa introduttiva

Le due segnalazioni che proponiamo in questo numero mettono al centro alcune riflessioni teorico-cliniche sui temi della presenza e dell’assenza nella costruzione della mente, percorrendo fili e snodi che intrecciano il pensiero filosofico con quello psicoanalitico.

Nella prima, Veronika Garms ci guida attraverso la presenza di un’area non simbolizzabile, nella mente, ma anche nella società, riportando le vicende dei palestinesi israeliani di cui parla questo interessante lavoro. Passando in rassegna in pensiero di alcuni filosofi, emerge come il bambino possa trovarsi inserito in un contesto sociale che nega la comprensione della realtà, trovandosi perso nella dinamica tra presenza e assenza: cosa sono? cosa non sono? cosa può permettersi di pensare la mia mente? a quale società appartengo? E all’interno di questa complessità, la psicoanalisi non deve dimenticare l’esterno sociale che, inevitabilmente, inscrive la sua traccia sul libro dell’inconscio che alberga in ogni essere umano. E allora, come districarsi tra presenza, assenza e incontro con l’altro, intrapsichico e sociale? ­­­­­­­­­

In linea con queste riflessioni, il secondo lavoro segnalato da Agata Flori. In modo molto suggestivo ci si chiede da dove nascono gli oggetti e come possiamo renderli simbolizzabili nella nostra mente. Passando in rassegna il contributo di due pensatori, il filosofo Alain e il nostro caro Winnicott, emerge come gli oggetti cosiddetti “interni ed esterni”, in realtà, siano sempre modificati dalla soggettività dell’umano. E allora, se la linea filosofica tenta di forzarci nel correggere l’oggetto interno in virtù di un incontro più concreto con la realtà, la psicoanalisi winnicottiana ci riporta nel vivo “dell’oggetto soggettivo” essenziale alla vita, che permette la costruzione di una mente desiderante, a volte distruttiva, altre riparativa, come base per la nascita e la sopravvivenza psichica.

E allora, come conoscitori, forse sempre in parte inesperti, della mente infantile ed umana, potremmo ripensare al fondamentale dualismo tra interno ed esterno, cogliendo “l’imperfezione dell’essere” nella continua dialettica tra il nostro mondo, spesso incomprensibile, e il nostro interno che tenta di dare senso a quei fili emotivi che, diverse volte, rimangono inquieti e nell’area del perturbante, come Freud ci ha insegnato. Possiamo, forse, provare a pensare che uno sguardo psicoanalitico non può relegare in un territorio sconosciuto il dolore interno ed esterno, ma può renderlo presente, parlato, dolorosamente reale costruendo quella vitalità che Winnicott, tra gli altri, ci ha insegnato a trovare nell’incontro sempre unico e sorprendente tra noi e il mondo, tra noi e i nostri pazienti, piccoli e grandi.

Silvia Cimino


Rozmarin E. (2022).                    

On Exception and the Unconscious: Present/Absent, and the Otherness                  of Childhood.

Psychoanalytic Inquiry, 42, 2, 124-134.

Con questo affascinante articolo Eyal Rozmarin ci invita ad una riflessione critica sui potenti meccanismi con cui la società in cui viviamo articola e circoscrive i territori psichici in cui ci è permesso abitare, e quelli da cui invece ci troviamo inconsapevolemente esclusi, in quanto sono relegati ad una alterità denegata.

La riflessione di Rozmarin parte da una realtà gravemente contraddittoria tuttora presente nel sistema legale del suo paese d’origine, Israele: sin dal momento della sua fondazione, nel 1948, a centinaia di migliaia di palestinesi fuggiti dalle loro case, o cacciati dalle milizie israeliane, è stato assegnato uno status legale denominato „presente-assente“; si tratta di uno status legale, che pur riconoscendoli come cittadini israeliani fisicamente presenti sul territorio, li classifica al contempo come assenti per quanto riguarda i loro diritti di proprietà; di fatto li priva di ogni diritto sulle loro case abbandonate, definitivamente occupate da ebrei.

Rozmarin traccia un ponte tra questo paradossale status di „presente/assente“ dei palestinesi israeliani e il concetto di „eccezione“ (nel senso di eccettuare, escludere) sviluppato dal filosofo italiano Agamben, per ipotizzare che in ogni cultura e tempo vi siano delle realtà al contempo presenti ed assenti, incluse ed escluse dalla consapevolezza individuale e collettiva. La nostra stessa identità e conoscenza di noi stessi sarebbe ampliamente manipolata dal modo in cui la società da una parte ci sospinge all’interno di categorie arbitarie di uguaglianza ed „inclusione“, e dall’altra esclude dalla nostra consapevolezza aree di alterità intollerabile, denegate e relegate ad uno status alternativo, inconscio, in cui sono assenti i diritti alla proprietà e all’esistenza. L’essere umano avrebbe una profonda paura di essere ulteriormente esiliato, reso assente o illegittimo, e ciò garantirebbe il persistere dell’ordine politico e sociale prestabilito.

Vi sarebbe quindi una profonda e innegabile alterità inerente alla nostra stessa natura di esseri sociali: l’alterità dei mezzi con cui possiamo conoscerci e dare senso a noi stessi. Sono mezzi sempre in prestito dalla società, sempre contraddittori, tuttavia necessari.

Secondo Rozmarin, la psicoanalisi, pur avendo da sempre posto grande attenzione alla presenza di territori non simbolizzabili, esclusi dalla nostra consapevolezza, e a desideri, colpe, conflitti, demandati ad una alterità denegata, non è stata capace di riconoscere a sufficienza l’origine sociale di molte di queste zone di alterità ed esclusione e, nel tempo, ha finito per incentrarsi sulla sola dimensione individuale e familiare dell’essere umano. Ciò, a suo avviso, è dovuto alla necessità della psicoanalisi di sopravvivere a due guerre mondiali e ristabilirsi come disciplina esiliata su suolo straniero: per tale necessità avrebbe finito per rinnegare la dimensione sociale, rendendola di fatto “presente/assente”.

Riprendendo il pensiero di filosofi come Foucault, Rozmarin mette in luce come lo stesso concetto di infanzia andrebbe riconosciuto come un costrutto sociale contingente impostoci dalla società moderna negli ultimi duecento anni per circoscrivere, separare e significare una parte della nostra vita, isolare il bambino all’interno della famiglia nucleare e soddisfare delle necessità di controllo sociale – piuttosto che come una categoria naturale e universale. Da una parte l’infanzia sarebbe una categoria di appartenenza ed inclusione, a cui viene rivolta grande attenzione, dall’altra parte si tratta di un territorio opaco di esclusione ed alterità: ai soggetti designati come “bambini” viene negato ogni diritto e potere decisionale, e vengono loro imposte delle norme, l’adesione alle quali è identificata come “salute mentale”. La psicoanalisi stessa si sarebbe fatta promotrice di tale categoria artificiosa di inclusione-esclusione, convincendoci che il nostro malessere si origini solo all’interno conflittuale della famiglia nucleare e delle nostre stesse menti, e offuscando la realtà che molta desolazione è generata invece dalle richieste contrastanti del sociale. Modificando il concetto di Ferenczi della confusione delle lingue, Rozmarin propone di vedere la socializzazione come una confusione tra il bisogno di cure e tenerezza del bambino e i significati sociali che l’adulto e la società forzano su di lui.

Eppure – sottolinea l’A. in conclusione – la psicoanalisi non può e non deve neanche mai essere una pratica solo critica e decostruttiva. Le persone che ci chiedono aiuto hanno bisogno non solo di slegare dei legami ingannevoli e deneganti, ma anche di creare dei legami significativi, e di sentirsi profondamente appartenenti alla società in cui vivono. Un palestinese deve poter sopravvivere in una società che gli nega il diritto di proprietà e il suo stesso essere “presente”. Possiamo de-costruire il concetto di infanzia, ma non possiamo fare a meno di crescere come bambini all’interno dei confini tracciati dalla società. Come terapeuti – scrive Rozmarin – dobbiamo quindi essere sia tra che dentro gli spazi che i nostri pazienti occupano e da cui sono occupati. Dobbiamo giocare la nostra parte sul palcoscenico sociale su cui siamo tutti attori, anche se vediamo la violenza delle eccezioni, della repressione e dell’inconscio collettivo che scrive il testo che recitiamo sul palcoscenico.

Veronika Garms


A. Heifetz (2021).

Object, relations: From Alain’s corriger selon l’objet to Winnicott’s transitional object.

International Journal of Application of

Psychoanalytic Studies, 18, 4, 385-392.

In questo breve articolo, l’A. ripercorre la nozione di “oggetto”e propone un interessante confronto tra il pensiero del filosofo Alain e quello di Donald Winnicott.

Per entrambi la nostra appartenenza al mondo è un indiscutibile punto di partenza. Gli oggetti sono costituiti dalle relazioni tra sé e mondo, e nella concettualizzazione dell’oggetto il Sé è intrinsecamente costituito da corpo e spirito.

Tuttavia, mentre per Alain la virtù consiste nello sforzarsi continuamente di annullare l’imposizione delle nostre passioni sull’esteriorità – priva di essenza – per Winnicott vivere bene richiede oggetti ed esperienze transizionali in cui la distinzione tra “là fuori” e “in me” non viene messa in discussione, tendenza al paradosso tipica del pensiero winnicottiano.

Altra caratteristica in comune è il modo non convenzionale di considerare i loro predecessori intellettuali: nel caso di Alain Platone, Cartesio e Kant, mentre per Winnicott Freud e M. Klein. Entrambi si mostrano debitori verso i loro predecessori, sebbene ne abbiano rimodulato in maniera piuttosto radicale il pensiero. In generale, solamente dopo che un senso di sé è cominciato a nascere (nel bambino e non solo) si può riconoscere il contributo degli altri nella creazione di sé stessi e delle proprie idee.

L’A. esprime il pensiero di Alain attraverso il concetto di corriger selon l’objet che riguarda il correggere gli errori nella nostra mente, solo seguendo i “contorni” dell’oggetto “là fuori” cioè le inevitabili necessità che l’oggetto ci impone. Sforzarsi continuamente di annullare l’imposizione delle nostre passioni sull’esistenza sarebbe per Alain la vera virtù e l’unico modo per riparare l’oggetto. Riferendosi a quello che definisce “il mistero dell’oggetto” Alain considera che “l’oggetto è là fuori, ma nello stesso tempo non esiste come oggetto nostro” (1902).

Per quanto riguarda Winnicott, il punto di partenza è la relazione madre-bambino descritta nei termini di “continuità dell’essere” (going-on-being) che consente al bambino non integrato di non frammentarsi. Nel ripercorrere la teoria winnicottiana, l’A. parte dall’iniziale onnipotenza con cui il bambino vive il seno come parte integrante di sé stesso, favorito in ciò dalla “preoccupazione materna primaria”. Successivamente, la madre “sufficientemente buona” introduce istintivamente un intervallo tra pianto e risposta e, attraverso questo processo di frustrazione costruttiva, svezza il bambino dal suo sentimento di onnipotenza. È a questo punto che il bambino inizia a rendersi conto che la madre “ambiente” dei momenti di calma e la madre “oggetto” che egli attacca nei momenti di eccitazione sono la stessa cosa ed inizia a preoccuparsi che possa non sopravvivere alla sua aggressività. Affinché il bambino possa utilizzarlo, risulta indispensabile la sopravvivenza dell’oggetto. Questa distruzione fantasticata del seno come “oggetto soggettivo” è essenziale perché attraverso ciò il seno diventa un oggetto reale del quale il bambino può davvero nutrirsi. Altrimenti detto, ci si può nutrire solo da una fonte esterna, sia fisicamente che mentalmente.

Il linguaggio provocatorio di Winnicott è essenziale per la natura paradossale del processo che descrive: la vitalità distruttiva dell’individuo è semplicemente un sintomo dell’essere vivo e non ha nulla a che fare con la rabbia per la frustrazione che appartiene all’incontro con il “principio di realtà”. Per concludere, se per Alain la virtù risiede nel tendere verso l’ideale del distacco tra mente e realtà, tra essenza ed esistenza, per Winnicott gli oggetti e le esperienze transizionali tra sé e mondo sono al centro del vivere bene e permettono di superare il trauma esistenziale di diventare un soggetto separato dal mondo. Secondo l’A., Alain e Winnicott proporrebbero modalità complementari di confronto con il mondo degli oggetti, ed oscillare tra queste due modalità di coinvolgimento senza sconfinare nei loro fini estremi può essere un segno distintivo di salute e benessere.

Infine, l’obiettivo di questo articolo – mettere in discussione l’ambito non convenzionale che Alain e Winnicott suggeriscono riguardo l’oggetto – si chiarisce meglio nei pensieri e riflessioni con cui l’A. lo conclude. Nell’ultima parte infatti emergono alcune considerazioni che lo vedono dissentire in parte sia dalla visione di Alain sia da quella di Winnicott, nella misura in cui ognuno di loro risulta comunque intriso ed immerso nella propria cultura di appartenenza: tradizione filosofica europea, Alain, e cultura britannica, Winnicott.

Agata Flori


Volume 30, Number 3, July-September 2022