L’immensità

Regia di Emanuele Crialese, 2022

aurora gentile




Poche ore prima della presentazione del suo film alla 79esima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, Emanuele Crialese ha deciso di rivelare in una conferenza stampa quanto era già noto nel suo ambiente personale e di lavoro, che “è nato biologicamente donna, e che l’adolescente al centro della storia è un suo velato autoritratto”. Crialese ha anche aggiunto a proposito del suo percorso di vita: “Penso che la parte migliore di un uomo è essere una donna. Io sono quel che sono e conservo dentro di me le due polarità, c’è in me un’enorme parte di femminilità, anche se non mi sono sentito nient’altro che uomo, sin dall’inizio”. E ancora: “Un viaggio come il mio non si sceglie. La scelta consiste nel continuare a credere in se stessi e continuare il percorso o morire. In questo momento ci sono delle alternative, è così che io comprendo la scelta”. 



La storia


Ambientato nella Roma degli anni Settanta, il film segue le vicende della famiglia Borghetti che da poco si è trasferita in uno degli appartamenti di recente costruiti nella città. Clara e Felice non si amano più ma non riescono a separarsi, la tensione in famiglia è palese. La loro primogenita, Adriana, si presenta ostentatamente come un ragazzo, ha 12 anni e si vive come una extraterrestre di una galassia lontana. Il padre vive il malessere della figlia con ostilità e la contrasta con violenza, ma la madre no, e lascia che la figlia viva il suo mondo immaginario. Nella sua inquietudine, “Adri”, di educazione cattolica, attende un miracolo (lo farà il “corpo di Cristo”, attraverso l’assunzione delle ostie consacrate che Adri sottrae di nascosto dalla chiesa? O saranno gli alieni a farlo?), un miracolo che la trasformi in un maschio. Le sue fantasie sono alimentate dalle trasmissioni di varietà e il Festival di Sanremo che vede in televisione. Le celebri sequenze delle coreografie pop degli show di Raffaella Carrà e Patty Pravo, le star che Adri preferisce e spesso confonde nei suoi pensieri con la madre, immergono l’atmosfera del film in una dimensione di “rumore”. “Rumore, rumore”, cantata da Raffaella Carrà, invade il film, forse come metafora del caos psichico del mondo interno di Adriana, ma segno anche di una sua disperata vitalità. Adriana sembra cercare un’evasione dal mondo familiare e soprattutto dal legame con la madre che è di complicità e reciproca protezione dalla violenza paterna. Un giorno, durante le sue esplorazioni del quartiere, scopre, al di là del boschetto di bambù poco lontano da casa, delle baracche operaie. Qui Adriana sembra varcare una soglia tra il suo mondo reale e quello del suo desiderio; può essere veramente “Andrea” e mettersi alla prova in questa diversa identità. Incontra una coetanea, e ne è subito attratta. Il regista evoca con pudore il loro reciproco piacersi e la ricerca di un contatto fisico. La relazione tuttavia termina con il trasferimento della ragazza e per Adriana ci sono il vuoto e la crisi della sua relazione con la madre. Immigrata spagnola, è una madre che adora i suoi tre figli, con i quali gioca, canta, danza… È evidente che li assume come oggetti d’amore, in sostituzione dell’amore che potrebbe darle il marito. È una pienezza d’amore esorbitante che non lascia spazio ai figli e crea una sorta di disfunzionamento dell’intero gruppo familiare: uno dei figli mangia troppo, mentre l’ultima rifiuta di mangiare, ma è Adriana, la più grande dei tre, sempre sua complice e protettrice, a farne le spese. Il patto che le lega è palese: “noi ci diciamo tutto o no?”, chiede la madre, quando Adriana, in un tentativo di prenderne le distanze, si avventura al boschetto senza il suo permesso. Come può Adriana, a dodici anni, differenziarsi dalla madre, per transitare da una relazione che possiamo immaginare fusionale-simbiotica a un’affermazione di sé come essere separato e con delle prerogative individuali? Essere maschio, in contraddizione con il genere biologico, ecco una differenza che è già organizzatrice; quale che sia la linea del fronte dove si accampa, essa mette comunque dell’ordine nel polimorfismo del sessuale infantile. “L’angoscia di separazione risiede meno nella separazione, che nella sua impossibilità” (Andrè, 2004, p. 55). Nondimeno, da un altro vertice, la scelta di un sesso in contrasto con quello biologico può anche costituire una sorta di appiattimento, di contrazione del processo di individuazione, che forse può spiegare anche il rilevante tasso di suicidi nella popolazione di chi ha scelto di intervenire chirurgicamente nel processo di cambiamento. È molto alto, in effetti, il rischio che la dimensione del genere fluido, con il sostegno di una ideologia che si vuole di “liberazione” dalla norma, si inverta di segno e quello che doveva rappresentare un elemento di libertà si traduca in un ulteriore processo di ‘naturalizzazione’ e di ‘reificazione’. Così la dimensione biologica, e l’anatomia che la rappresenta, si ripropone come un destino che può andare solo in una direzione, anche se questa direzione non coincide con l’identificazione del genere alla nascita. Allora la transizione agita rischia di porre in atto una catastrofe senza una possibile riparazione. “Perché nessuna liberazione può mettere al riparo dal conflitto psichico, e si deve ammettere che non c’è un suo trattamento sociale, anche se i termini del conflitto portano il segno delle poste in gioco nel presente e si enunciano nella sua lingua dominante” (André, 2005, p. 17). La psicoanalisi, per quel che la concerne, ha una posizione “ultravuota”, la cui efficacia consiste nella sua funzione di traduzione e di interpretazione dei soggetti che si rivolgono alla sua cura, che è individuale. Inoltre c’è una verità, come ci insegna Melanie Klein, che non si deve dimenticare: la violenza interdittrice interna può rivelarsi molto più implacabile di quella esercitata dal mondo esterno, sia dalla famiglia che dalla società. 

Per molti di noi, credo, i dibattiti, gli interventi e anche gli scontri, sulle transidentità, sono, nel nostro mondo di oggi, una dimostrazione, ancora, della complessità cui il pensiero psicoanalitico riesce a giungere nel momento in cui è messo alla prova dalle questioni che gli si pongono, evitando facili scorciatoie, soluzioni alla moda, o riproposizioni stantie. E anche una dimostrazione di come sia importante allontanarci da ogni semplificazione relativa alla costruzione dell’identità come processo meramente intersoggettivo. Quello che appare è appunto quanto sia complessa l’articolazione fra l’attribuzione d’identità e l’esperienza della propria corporeità, l’esperienza cioè di un nucleo irriducibile ai processi identificatori da parte dell’altro e che, anzi, può costituire un punto di resistenza al discorso dell’altro che permette di modulare uno spazio autoriflessivo, come forse è il caso della protagonista del film. Se l’identità sessuata è legata al modo in cui il bambino interpreta i messaggi consci ed inconsci che gli provengono dai suoi genitori e dalle altre persone del suo ambiente, non si tratta soltanto di un’assunzione passiva. C’è un limite tra una rappresentazione dei processi identificatori costruita unicamente sul verbo attivo (identificare) e una dimensione che potremmo chiamare zona “non-identificabile” dall’altro come da sé stessi, che forse richiama la riflessione di Winnicott sull’essere, come momento originario della nascita psichica del soggetto. Questo limite invalicabile, vero sé segreto, non lo possiamo conoscere ed è singolare, caso per caso.

Per tornare al film la collisione, quasi, tra la drammatica vicenda narrata, i suoi contenuti, violenza domestica, incomunicabilità, follia, e la sua forma pop, vistosa, perfino esplosiva, come l’irrompere del celebre numero di Adriano Celentano (presente anche in La dolce vita) con il suo ritornello demenziale a tempo di rock, può farci pensare che questa storia autobiografica non può essere detta tutta. La parte d’ombra di questa vicenda non c’è. Forse questo film, che il regista dichiara di aver voluto fare da sempre, è ciò che resta della storia vissuta, ancora troppo ingombrante nella memoria del regista: una madre che scivola nella depressione ed esce piegata dall’esperienza del ricovero con il suo dolore confinato ormai tra i muri di casa, coi suoi non detti, e non detti a noi spettatori del film, nonostante il lieto finale che come nel sogno è la realizzazione di un desiderio.

Bibliografia

Andrè J (2004). L’impossible separation. In: L’imprévu en séance. Paris: Gallimard.

Andrè J (2005). L’indifferent. In: Les sexes indifferents. Paris: PUF.