Segnalazioni bibliografiche


Riviste segnalate: Adolescence, Journal of the American Psycho-Analytical Association,

Journal of Child Psychotherapy, Interazioni, International Journal of Psycho-Analysis,

Journal de la Psychanalyse de l’Enfant, Kinderanalyse, Psichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza,

Psychiatrie de l’Enfant, Psychoanalytic Study of the Child, Rivista di Psicoanalisi,
Winnicott Studies, Bulletin de la Fédération Europeenne de Psychanalyse (FEP),
Revue Française de Psychanalyse.

Premessa introduttiva

In questo numero proponiamo la lettura di due articoli centrati su criticità e potenzialità dell’uso di strumenti digitali nello spazio terapeutico.

Il lavoro della Smolen, attraverso il generoso apporto di vignette cliniche, si sofferma sulla scelta di tollerare l’utilizzo di strumenti tecnologici nello spazio terapeutico con giovani pazienti che hanno storie spesso traumatiche. Seppure con gli interrogative sollevati da questo delicato tema, ormai non più eludibile, sostiene che l’uso difensivo di questi dispostitivi può consentire al paziente un cauto coinvolgimento nella relazione terapeutica, permettendogli di accostare e comunicare tematiche conflittuali ed infine avviare processi elaborativi, anche attraverso un dialogo in seduta arricchito con il linguaggio legato all’uso dei device.

Il complesso articolo di Jung e Gillet analizza in dettaglio le implicazioni cliniche e gli aspetti transferali dell’uso dei videogame in terapia, attraverso l’interessante esposizione di un progetto terapeutico dedicato a gruppi di piccoli pazienti. Prendendo in considerazione il coinvolgimento fisico del corpo in relazione con l’hardware dello strumento, in contemporanea con il livello della comunicazione attraverso il software e l’influenza retrospettiva sull’esperienza interna del paziente, la disamina si sofferma a lungo sul concetto di avatar, come punto di contatto tra il mondo interno e quello virtuale. Ciò conduce verso un esame del videogame come un ambiente capace di trasformare funzioni e proprietà psichiche del soggetto. In questo ambiente si configura il gameplay come l’esperienza dell’interazione del giocatore con il gioco, di cui la descrizione delle differenti funzioni fornisce punti di riferimento su come il processo di simbolizzazione possa essere attivato nel e dal mondo dei videogiochi.

Entrambi gli articoli si inseriscono in un filone ventennale di riflessioni, oscillanti dall’idealizzazione alla demonizzazione, ma anche di analisi psicoanalitiche, le cui funzioni si sono fatte sempre meno epistemologiche e sempre più di natura teorico-metodologica. Ciò è avvenuto in conseguenza della consapevolezza dell’ineluttabilità della presenza degli strumenti tecnologici in ogni dove dell’esistenza umana e di quella infantile, dato che, per riprendere il contributo della Smolen, Internet c’è e resterà nelle nostre vite e in quelle dei nostri pazienti. Il nostro lavoro di osservatori degli eventi e di armonizzazione delle risposte e degli interventi terapeutici non può certo prescindere dal grado di inquietudine attivato in noi dal fatto che il mondo digitale, internet, i videogiochi, sono frutto di un’estensione, fuori da sé, della mente umana, che espone ad una quota di imprevedibilità difficile da fronteggiare. Il mondo del videogioco è complesso perché si presenta anche come un “teatro della mente”, in cui pensieri ed azioni si mescolano fino ad un’autonomia che rievoca personaggi in cerca di autore di pirandelliana memoria, in vita a prescindere dal loro creatore, richiamandoci ad una continua e vigile attenzione a nuovi e genuini modi di essere e di stare con i nostri giovani e tecnologici pazienti. Memori che la tecnologia in sé non è né buona né cattiva, ma che è l’uso che se ne fa a determinarne le qualità.

Flora Gigli

Smolen A. G. (2021).

The Use of Digital Devices in Child Psychotherapy and Psychoanalysis:                  A Clinical Exploration of Pros and Cons.

The Psychoanalytic Study of the Child, 74, 1, 308-324.

La diffusione dei dispositivi digitali e della ‘rete’ negli ultimi decenni ha inciso in modo significativo sulla globalità delle esperienze umane, e in ambito psicoanalitico è aperto il dibattito sugli effetti introdotti dalle nuove tecnologie nel lavoro psicoterapeutico. In particolare, in età evolutiva non si può prescindere dal dato per cui bambini e adolescenti che oggi iniziano un trattamento sono cresciuti con genitori per i quali l’uso del cellulare e del computer rappresentava già un’esperienza quotidiana significativa, cui sono stati estesamente esposti.

Gli psicologi dell’età evolutiva hanno da tempo rivolto l’attenzione agli effetti dell’uso precoce dei dispositivi tecnologici sulla capacità dei bambini di rappresentarsi mentalmente gli eventi e di fantasticare, ed in generale sull’espressione della loro creatività. Pur non essendovi accordo fra tutti i ricercatori, molti dati depongono per il rischio di una inibizione di tali funzioni, in quanto le sollecitazioni percettive immediate, complesse e potenti, possono favorire nel bambino che cresce la tendenza all’azione piuttosto che alla riflessione, ed una conseguente riduzione della capacità di controllo degli impulsi; aspetti, questi, poco favorevoli all’elaborazione emotiva che rappresenta uno degli scopi della psicoterapia ad orientamento psicodinamico.

Ann G. Smolen, analista di grande esperienza presso lo Psychoanalytic Center di Philadelphia, si interroga in questo scritto su cosa avviene quando i dispositivi digitali entrano all’interno della stanza di terapia, e lo fa a partire dalle riflessioni sul trattamento di sei suoi pazienti, bambini o adolescenti.

Nelle storie cliniche tratteggiate, i bambini e gli adolescenti descritti condividono una condizione di profonda solitudine, nonostante l’uso della rete fornisca la falsa impressione di essere sempre in grado di esercitare il controllo, e di non restare mai soli.

I casi descritti, tratteggiati in modo sintetico ma efficace, ci mostrano una varietà di effetti e di influenze connessi all’uso di tali dispositivi. 

Molto interessanti sono le osservazioni sull’utilizzazione dello schermo del telefono, o dell’iPad o del computer portatile come difesa dalla comunicazione e, in generale, dall’intimità della relazione terapeutica. Attraverso l’attenta analisi del controtransfert e la comprensione dei comportamenti osservati in terapia in relazione alla storia evolutiva e, spesso, traumatica di questi pazienti, la terapeuta ha scelto in molti casi di tollerare l’introduzione e l’uso degli strumenti tecnologici nella cornice della terapia. Ciò consentiva al paziente di coinvolgersi cautamente in una relazione di fiducia, dietro il riparo consentito dai comportamenti difensivi legati all’uso degli stessi dispositivi. In questo quadro complesso diveniva possibile per il giovane paziente accostare e comunicare i propri conflitti e, gradualmente, accedere ad una loro elaborazione. La costruzione nella coppia terapeutica di ‘codici’ che utilizzavano anche il linguaggio e i contenuti condivisi nell’uso di tali dispositivi (videogiochi, filmati da YouTube, ‘videoscrittura’ personalizzata, ad esempio) si è intrecciata, nei trattamenti, con dinamiche transferali che hanno incluso la riattualizzazione, in momenti di ‘crisi’, delle esperienze traumatiche, interpretabili all’interno della relazione. L’inevitabile ricorso agli agiti, intervenuti come elemento ‘negativo’ – talvolta francamente distruttivo, comunque di ostacolo alla comunicazione e alla mentalizzazione – connesso all’uso dei dispositivi digitali, rappresentava peraltro la condizione stessa della costruzione dell’alleanza terapeutica.

Da segnalare, ad esempio, il significato del comportamento da hacker di una ragazza sedicenne, che ha messo a dura prova la terapeuta, ma ha comunque consentito di ripercorrere gli abusi e gli abbandoni subiti dalla paziente nell’infanzia, con importanti possibilità trasformative personali.

In un caso, nel quale si era stabilita per il piccolo paziente una vera e propria dipendenza da videogiochi, la Smolen descrive come sia stato necessario, ed efficace, vietare del tutto l’uso dei dispositivi nella stanza di terapia e fornire un significativo aiuto ai genitori affinché intervenissero nella stessa direzione, apprendendo gradualmente a tollerare le reazioni del loro figlio e accompagnandolo verso altri livelli di esperienza e di relazione.

Molto, nell’uso delle nuove tecnologie, conclude l’A., ci può apparire sbagliato o problematico; tuttavia Internet c’è, e resterà, nelle nostre vite e in quelle dei nostri pazienti, e la psicoanalisi continuerà ad interrogarsi sui molteplici significati dell’uso dei suoi dispositivi nella stanza d’analisi.

Laura De Rosa


Jung J., Gillet G. (2021).

Psychotherapy mediated by videogames.

The International Journal of Psychoanalysis, 102, 2, 281-296.

Sulla base dell’esperienza clinica con bambini e adolescenti all’interno di un centro medico-psicologico, gli AA. di questo lavoro propongono un’articolata analisi tecnica e teorica sull’utilizzo dei videogiochi come mediatori terapeutici a supporto dei processi di transfert e controtransfert. Tale proposta comporta di fatto un ampliamento metapsicologico che attraversa il dibattito sull’utilizzo dei videogiochi in seduta, per considerare le specificità dei dispositivi virtuali in relazione alle funzioni psichiche e ai processi di simbolizzazione mobilitati nel paziente.

Il progetto terapeutico, rivolto a piccoli gruppi di pazienti, prevede incontri settimanali organizzati secondo una sequenza strutturata: una prima fase in cui i ragazzi utilizzano a turno i videogiochi, seguita da un dibattito su ciò che il gruppo ha osservato e sentito durante il gioco.

Gli interventi di psicologi ed educatori sono volti ad evidenziare gli aspetti emotivi veicolati dal videogioco, al fine di favorire nel gruppo processi di mentalizzazione ed elaborazione. 

Passando ad un’analisi più dettagliata, gli AA. dimostrano come il dispositivo videoludico svolga la funzione di mediazione su due livelli di interconnessione, necessari al giocatore per accedere al mondo virtuale.

L’interfaccia esterna, la parte hardware del computer, si riferisce al punto di contatto del giocatore con le componenti fisiche della console, quindi al modo in cui il corpo viene sollecitato dalle caratteristiche fisiche del mezzo. 

Quella interna, invece, corrisponde al software del dispositivo, che consente al giocatore di interagire e comunicare con il videogioco. Questo secondo livello non interessa solo le azioni compiute all’interno del gioco, ma il grado in cui il corpo e le intenzioni del giocatore trovano un significante adeguato nel mondo virtuale, e come questo, a sua volta, possa modificare retrospettivamente l’esperienza interna del giocatore nel processo terapeutico. 

Il significante per eccellenza è costituito dall’avatar, che si presenta come un punto di contatto tra il mondo interno del giocatore e quello virtuale, accreditandosi quindi come un vero e proprio oggetto transizionale che permette di accedere in modo interattivo ad una realtà animata, coerente e stimolante, che può essere manipolata dal giocatore.

L’avatar dei videogiochi è dunque un oggetto complesso plurifunzionale che permette al giocatore di interfacciarsi con il virtuale e, allo stesso tempo, di comunicare con gli altri componenti del gruppo e con sé stesso. Attraverso meccanismi di proiezione, aspetti di Sé del soggetto possono essere incarnati virtualmente dall’avatar, costituendosi come un oggetto-Sé tecnologico.

L’utilizzo dei videogiochi presuppone quindi un processo di regolazione continuo tra soggetto, dispositivo e mondo virtuale, in modo da mantenere una concordanza tra aspetti psicosomatici del giocatore e il gioco stesso. Si determina una sorta di ibridazione tra la rappresentazione psichica del corpo del giocatore e l’avatar. Questa attiva una contaminazione bidirezionale, dal momento che l’oggetto tecnologico non è solamente un mezzo di espressione del funzionamento psichico, ma un ambiente capace di trasformare funzioni e proprietà psichiche del soggetto.

Riprendendo il concetto di Self-cyborg, gli AA. considerano l’oggetto tecnologico come un’estensione della superficie del Sé, che amplia i confini dell’identità psichica oltre i limiti biologici. 

Nelle esemplificazioni cliniche emerge chiaramente come i pazienti, attraverso un’esperienza fluida di gameplay possano sperimentare l’illusione di creare/trovare la realtà virtuale in cui sono immersi, a fronte di un processo di soggettivizzazione ancora carente, che non consente ai giovani pazienti un pieno riconoscimento della realtà esterna. In questo quadro, l’avatar rappresenta un’estensione narcisistica non umana, che permette al soggetto di sdoppiarsi e incarnarsi nell’oggetto virtuale.

L’esplorazione del mondo virtuale attraverso il proprio avatar sollecita trasformazioni identitarie nel rapporto con sé stessi e con gli altri, mantenendo al contempo quel senso di continuità narcisistica necessaria per l’esplorazione dell’alterità.

Gli AA. mettono in evidenza un altro elemento specifico che caratterizza le mediazioni digitali dei videogiochi: il gameplay, la sua “giocabilità”. Dietro questo concetto si fa riferimento a due differenti accezioni. La prima più legata agli elementi strutturali che possono rendere un videogioco più o meno fruibile, mentre la seconda emerge nel punto di incontro tra i meccanismi di funzionamento di un sistema e il modo in cui il giocatore, adottando un atteggiamento ludico, sperimenta il “potenziale di gioco”. Partendo sempre dal materiale clinico, vengono identificate diverse dimensioni del gameplay come l’interattività, la trasformabilità, la manovrabilità e la fluidità; tutte funzioni che stimolano il dispiegamento di processi di simbolizzazione nel giocatore.

In ultima istanza, gli AA. propongono un ampliamento dell’aspetto multidimensionale del transfert.

Ipotizzando che il videogioco possa funzionare come un catalizzatore di aspetti sensoriali frammentati, appartenenti al mondo interno del paziente, identificano una corrente transferale che opera attraverso la sintesi e la raccolta di questi flussi sensoriali mobilitati dal medium videoludico.

Questo tipo di processo transferale chiamato “transfert focus sensoriale”, è responsabile dell’esperienza di “immersione” nel gioco che coinvolge il giocatore isolandolo dall’ambiente circostante.

Il videogioco, funzionando come un contenitore dinamico capace di riassemblare i flussi sensoriali del giocatore, permette al soggetto di riconoscere l’esistenza dell’Altro passando attraverso l’illusione di vivere un’esperienza intersoggettiva con l’oggetto-mediatore. Tale processo è facilitato dalle caratteristiche dell’avatar come mediatore attivo.

Gli AA. configurano, quindi, una dinamica di transfert complessa, in cui coesistono movimenti transferali diffrattivi su differenti elementi del dispositivo virtuale, ed altri che contrariamente, tendono a riunire elementi psichici e sensoriali scissi, catalizzandoli sull’oggetto mediatore.

Marco Carboni