Recensioni*




Coltart N., Come sopravvivere da psicoterapeuta. Sesto San Giovanni: Mimesis, 2022. Pagine 170. Euro 18,10.


Nina Coltart è stata una straordinaria psicoanalista inglese che tra gli anni ‘80 e ‘90 ha ricoperto cariche di rilievo nella Società di Psicoanalisi britannica, pur mantenendo posizioni di “isolazionista” nell’ambito del Gruppo Indipendente. Dopo Slouching towards Bethlehem, tradotto in italiano con il titolo Pensare l’impensabile, edito da Cortina nel 2017, la sua seconda opera è stata Come sopravvivere da psicoterapeuta, pubblicata una prima volta nel 1998 da UTET e recentemente da Mimesis, mentre Astrolabio ha pubblicato nel 1999 il suo ultimo lavoro, Il bambino e l’acqua del bagno. La lettura dei saggi mette subito in rilievo una grande libertà intellettuale, il rifiuto di appartenere a questa o a quella corrente psicoanalitica, il rigore per una solida formazione e costruzione dell’identità psicoanalitica, la capacità di saper imprimere alla scrittura di una disciplina complessa una caratterizzazione di semplice fruibilità per il lettore. Secondo Eric Rayner (1995), l’apporto dei contributi alla ricerca psicoanalitica di Coltart riguarda specificamente la riflessione sulle problematiche emotive dell’incontro analitico.

L’autrice spiega la scelta di un termine al limite della provocazione come la parola “sopravvivenza” che per lo più è caratterizzata da coloriture negative: “(…) io credo sia legittimo servirsi dell’idea di sopravvivenza per esprimere (il concetto) di una esperienza positiva composta in gran parte di gioia e creatività. Alla base c’è (…) l’idea di piacere: piacere legato all’esperienza a cui si sopravvive e che arricchisce l’intera vita del sopravvissuto” (pag. 18). Anche se qualche volta, scrive l’autrice, il problema della sopravvivenza va preso in senso letterale: “cosa fareste se il paziente porta con sé un coltello e ci giocherella mentre vi fissa?” (pag. 57). Il libro, che raccoglie parte delle lezioni tenute a studenti che svolgevano il training psicoanalitico, in molti passaggi conserva la vivacità di una discussione didattica. Servendosi della sua esperienza, Coltart offre una guida che aiuta a meglio comprendere i temi fondamentali della formazione; una guida particolarmente utile per chi ha intrapreso da poco il percorso formativo e una testimonianza diretta, autentica, da parte di una collega per chi esercita la professione da anni. È un libro che richiede disponibilità alla riflessione, in esso Coltart si espone in prima persona, a differenza di quanto accade, per lo più, nei lavori scritti dagli analisti che sono volutamente più impersonali, “parlare di sé è diventato quasi un tabù e, a mio avviso, la letteratura del nostro settore ne risente” (pag. 135). L’autrice afferma che il terapeuta può svolgere il proprio lavoro senza scivolare nella monotonia e nella noia “se riesce a conservare la capacità di farsi sorprendere” (pag. 35). In effetti, se si considera il lavoro dello psicoterapeuta o dello psicoanalista si può cogliere come questi viva una condizione di isolamento e solitudine, continuamente esposto al dolore mentale dell’altro, ma sostenuto dalla speranza o dalla certezza che il modo in cui si propone possa costituire una terapia in grado di guarire l’altro, in una situazione che è “fonte continua di interesse intrinseco (…) ben poche professioni sono all’altezza della nostra in termini di fascino, coinvolgimento, sorpresa, stimolo per le nostre capacità e incentivo a guardare la vita da prospettive sempre nuove” (pag. 133).

La psicoanalisi di Coltart contempla compresenze paradossali: osservare con pazienza ma mettere a fuoco repentinamente, fidarsi delle conoscenze ma essere disposti ad essere una tabula rasa, astenersi dal giudizio ma essere pronti a prendere decisioni morali, “la preparazione degli psicoterapeuti si basa sulle loro debolezze, mentre tutte le altre professioni si basano sulle loro forze” (pag. 66.) La sopravvivenza professionale e personale del terapeuta, scrive Coltart, sarà possibile solo se c’è una forte “vocazione”. Non usa questo termine nell’accezione corrente, religiosa o mistica, ma in un’altra: ossia nella profonda convinzione di seguire una scelta adatta a sé. “Credo che quando una persona è profondamente convinta di questa scelta non solo sia giustificabile il termine di vocazione, ma sia proprio la qualità di vocazione la fonte dell’esperienza più profonda e prolungata della sopravvivenza psicoterapeutica piacevole” e aggiunge: “usando l’idea di vocazione mi riferisco alla profonda convinzione emotiva ed intellettuale che l’individuo nutre di perseguire uno scopo assolutamente adatto a sé (…) posso affrontare l’argomento perché sono assolutamente certa, e lo sono stata per anni, di essere assolutamente adatta al lavoro che svolgo; fin dagli inizi ho avuto la certezza incrollabile di ciò che riconoscevo come vocazione” (pag. 29). 

Psicoanalisi o psicoterapia? Coltart individua le differenze non tanto nella frequenza e nell’intensità quanto piuttosto nel “tipo di risposta” che si dà all’analizzando (pag. 40). Comunque la distinzione va fatta “almeno nella nostra mente” (pag. 45). Spiega che entrambi gli interventi si propongono una esplorazione profonda degli strati della mente; entrambe le tecniche richiedono una disponibilità a parlare liberamente dei pensieri che si susseguono. L’analisi comporta, però, un maggiore impegno: quattro, cinque sedute settimanali, in quanto la continuità e l’intensità sono aspetti importanti. La psicoterapia richiede meno sedute. In questo secondo caso “il paziente siede di fronte a me, perché preferisco un’interazione più diretta. Utilizzo il transfert per compiere delle interpretazioni il più spesso possibile, ma non prevedo di riservare a questo processo la maggior parte del tempo a disposizione, come farei invece se optassi per un’analisi classica (quattro o cinque volte alla settimana, paziente sul lettino)” (pag. 39). L’autrice non manca di soffermarsi sul “senza memoria e senza desiderio” di bioniana formulazione: “esiste il pericolo che questo suggerimento venga oggi accettato come una verità assoluta, e che sia ben noto più che ben capito. Lo cito in questo contesto non solo perché credo che la sua comprensione sia importante, ma perché penso che sia maggiormente applicabile a un’analisi tradizionale che a una psicoterapia” (pag. 41). Pensiero dell’autrice, condiviso con Bion, è che la tendenza alla previsione può essere limitante per il terapeuta che si dovrebbe predisporre a qualsiasi messaggio possa arrivare dal paziente. 

I capitoli quinto e sesto del libro riguardano la valutazione. Una capacità raffinata? Coltart ritiene che “la spina dorsale” della consultazione sia la “psychological mindedness” e per questo quando è stata invitata a scrivere un contributo per il British Journal of Psychiatry ha elencato nove punti di valutazione che -secondo la sua esperienza- costituiscono la predisposizione ad una psicoterapia. Ad esempio, tra questi: la capacità di immaginazione, la presenza di speranza, la qualità della relazione con il terapeuta, la capacità di raccontare la propria storia… Una consultazione che comprenda tutti, o parte di questi punti, fornisce al terapeuta gli elementi sulla storia complessiva del paziente, una buona comprensione del problema, la possibilità di formulare una ipotesi sul significato dei sintomi, una idea chiara su come procedere e a chi poter eventualmente indirizzare il paziente. Una consultazione di questo tipo, oltre che a far affiorare materiale dinamico, fornisce sostegno al paziente supportandone le speranze, rassicurandolo, poiché “la vera rassicurazione non ha bisogno di quelle vuote frasi di consolazione” (pag. 107).

Scrivendo del tempo libero e dello stile di vita Coltart rimarca come la professione sia “probabilmente il lavoro più sedentario che esista” (pag. 135) e, poiché i terapeuti rimangono fermi a lungo durante le ore di lavoro, dovrebbero trovare attività che contemplino il moto nelle ore di tempo libero. Immagina che l’avere un giardino e la stessa pratica del giardinaggio possano essere di grande aiuto per la sopravvivenza in quanto permettono al terapeuta di avere fonti di nutrimento emozionale diverse dal lavoro. Formula così la conclusione alla quale dice di essere giunta nel corso degli anni: “in un mondo ideale tutti gli psicoterapeuti dovrebbero avere un giardino” (pag. 136). I giardini, come le sedute, sono luoghi di pazienza, di scelta, di varietà: territori mentali di speranza.

Maria Pia Chiarelli

Bibliografia

Rayner E., 1991. Gli Indipendenti nella Psicoanalisi Britannica. Traduz. Ital., Milano: Cortina, 1995.



Spagnolo R, Northoff G. Il sé dinamico in psicoanalisi. Fondamenti neuroscien-tifici e clinica psicoanalitica. Milano: Franco Angeli, 2022. Pagine 162. Euro 22,00.


Gli autori, nel loro libro scritto a quattro mani, affrontano il complesso tema del Sé attraverso varie lenti di lettura integrate tra loro in uno stile dinamico e creativo. Il pensiero di Spagnolo (neuropsichiatra e psicoanalista) e di Northoff (neuroscienziato e filosofo) è guidato da alcune domande nucleari: quale è la base del Sé? Il Sé è multiplo o unitario? Quali sono le dimensioni e gli aspetti del Sé? Qual è lo sviluppo del Sé? Domande le cui risposte si sviluppano nel corso del libro in un pensiero chiaro per quanto complesso.

L’idea dalla quale prende le mosse l’intero scritto è che il Sé si trovi in un continuo scambio con il mondo ed è proprio tale dialettica Sé-mondo la radice dalla quale si dipana la continuità e l’integrazione. Tale visione che gli autori mettono in evidenza è in linea, come riportato in un interessante paragrafo del libro, con le più recenti teorie psicoanalitiche del Sé che propongono una visione relazionale centrata sullo scambio Sé-altro, nella quale lo sviluppo del Sé segue la regolazione affettiva ed emozionale.

Le fondamenta del loro pensiero sono che il Sé può considerarsi basato su una specifica struttura spazio-temporale cerebrale denominata Cortical Midline Structure (CMS). Il Sé, nella sua prospettiva temporale, in cui passato, presente e futuro si abbracciano, è caratterizzato da una “durata estesa” nel tempo (p. 16) che permette di tenere insieme le varie temporalità che sono strettamente intrecciate alle funzioni motorie, sensoriali, affettive e cognitive. 

IL CMS è contraddistinto da ampie connessioni con altre regioni cerebrali, avendo, così, attraverso la dimensione soggettiva del tempo e dello spazio, un impatto su altre funzioni. Si struttura in questi termini, specificano gli autori, “una soggettività di base della struttura spazio-temporale del Sé” (ibidem), in quanto il Sé “temporalizza e spazializza il cervello e le sue funzioni psicologiche associate” (ibidem).

Il Sé ha una radice somatica, è installato nel corpo, o per meglio dire incarnato, “embodied”, e i processi integrati corpo-mente avvengono anche grazie al suo sviluppo. Questo Sé somatico-biologico, non legato alla cognizione e alla riflessione, che Damasio denomina “Proto-Sé” mentre Panksepp “Sé nucleare,” Spagnolo e Northoff lo contrassegnano, per avvalorare la componente affettiva, come “Sé affettivo”.

Il “Sé affettivo” è quella dimensione del Sé fisica e affettiva che nasce prima e in modo autonomo dalla cognizione e dalla consapevolezza. Pertanto alcune componenti del Sé sono pre-riflessive e non narrative. Tra queste troviamo il senso di padronanza (Self ownership) e l’agentività (Self agency) che costituiscono il Sé minimo. A fianco alle connotazioni corporee, affettive e cognitive del Sé gli autori sostengono, come aspetto centrale dal punto di vista identitario, la continuità del Sé, che abbraccia la memoria, ma non solo la memoria cognitiva quanto, piuttosto, la memoria spazio-temporale che connette cervello e psiche. 

Lo sviluppo del Sé procede attraverso un continuo ampliamento che comporta un lavoro costante d’integrazione e rappresentazione degli aspetti del Sé minimo con “forme sempre più complesse del Sé in cui memoria, le competenze cognitive e gli affetti rendono possibile il collegamento tra le diverse scale del tempo” (p. 25).

Il sistema percettivo, descritto come un sistema multisensoriale integrato, e il Sé, che mappa gli eventi periferici negli stati interni del corpo, costituiscono quello che gli autori descrivono come “Sé Embodiment”. Per descrivere meglio tale concetto, Spagnolo e Northoff riprendono la differenziazione fatta in ambito filosofico tra Korper, corpo, con i suoi attributi fisici e biologici, quindi corpo-oggetto, e Leib, corpo vissuto, corpo-soggetto. Il Sé è un intreccio tra Korper e Lieb. La soggettivazione nasce dal lavoro del cervello, quando si trova in stato di riposo, che costruisce in modo coerente e dinamico caratteristiche spazio-temporali con un processo che integra in modo continuo tutti gli input interni e propriocettivi. 

Gli autori, attraverso un’interessante esemplificazione clinica, mostrano in opera, nella stanza di analisi, il processo di trasformazione e soggettivazione del corpo e del Sé grazie ad un lavoro d’integrazione nella costruzione soggettiva spazio-temporale dell’attività spontanea del cervello. Gli stati mentali, la modalità in cui il soggetto esperisce sé e gli altri nel tempo e nello spazio, infatti, sono modellati dalla dinamica spazio-temporale dell’attività spontanea.

Il Sé, sottolineano Spagnolo e Northoff, “non è né mentale né corporeo” (p. 91), si estende oltre il corpo e oltre la mente, si “sincronizza con il mondo” (ibidem). In virtù di questo la relazione mondo-Sé modella la relazione corpo-Sé. La prima relazione, spiegano gli autori, contiene la seconda come in una bambola russa in quanto la relazione mondo-sé ha un’estensione temporo-spaziale molto più ampia. La vignetta clinica, riportata per mostrare più nel dettaglio questo concetto, mette in evidenza come la relazione mondo-Sé sia essenziale per la stabilizzazione del Sé, in quanto le relazioni con l’altro da Sé e con l’ambiente sociale e culturale creano un allineamento temporo-spaziale allargato. Se tale relazione viene interrotta il Sé si trova impoverito, rimanendo all’interno della sola relazione corpo-Sé, e la persona inizia a manifestare tutta una serie di sintomi corporei.

Il cervello, pertanto, è intrinsecamente sociale. Queste evidenze riportano a varie teorizzazioni psicoanalitiche, in primis a quella di bioniana memoria, le quali sottolineano che essere inseriti in un ambiente comporta fare esperienze relazionali: nella relazione con l’adulto che lo accudisce il bimbo “impara”. Impara, in primo luogo, le modalità con cui funzionare emozionalmente: si fondano qui le basi affettive che, in realtà, occupano e occuperanno la quasi totalità del funzionamento cerebrale.

Il continuo lavoro di tessitura della continuità spazio-temporale del Sé può avvenire attraverso l’arte, i sogni, come descritto in modo puntuale e animato in alcuni capitoli del libro. 

La produzione onirica è simile, infatti, alla creazione artistica in grado di tessere elementi passati creando una nuova tela.

Spagnolo e Northoff ipotizzano che tutto il lavoro del sonno e del sogno sia di “dare forza alla struttura spazio-temporale del Sé tramite cui sperimentiamo continuità e soggettività” (p. 126). Nel sonno, specificano, il rumore proveniente dal mondo esterno si silenzia e viene in primo piano il Sé che è completamente immerso nella realtà immaginifica del sogno; il Sé si trova nello spazio del sogno, attraverso la “sensazione di essere presenti” (p. 121) in quel sogno in un tempo presente.

Gli autori ricordano che il sogno è un particolare stato di coscienza nel quale il sognatore è distaccato e non consapevole del mondo circostante. Riportando recenti studi che mostrano come il sogno sia simile allo stato di veglia, in quanto anche nel sogno è presente la cognizione di ordine superiore, Spagnolo e Northoff sottolineano che ciò che sembra differire tra i due stati è la struttura del Sé. Da tali differenze della rappresentazione del Sé è possibile trarre ipotesi sul funzionamento mentale in assenza di stimoli che provengono dall’esterno. Per questo motivo il sogno è la via regia per monitorare, nel corso del processo analitico, i processi trasformativi dell’attività mentale. Nei sogni, infatti, la cognizione, seppur presente, è in secondo piano permettendo, così, di accedere ad un livello più profondo di quello cognitivo caratterizzato da una specifica dinamica temporo-spaziale.

Concludendo, gli autori mostrano come il Sé non possa essere colto da un solo elemento, tenendo a mente la teoria dei sistemi dinamici, ma nell’insieme delle parti e descritto nella sintesi. Infatti, l’uomo può essere concepito come un articolato sistema dinamico non lineare che, date specifiche condizioni iniziali di partenza, nell’interazione con gli stimoli esterni si trasforma dinamicamente e in un modo complesso.

Elisabetta Bellagamba