Segnalazioni bibliografiche*


Riviste segnalate: Adolescence, Journal of the American Psycho-Analytical Association,

Journal of Child Psychotherapy, Interazioni, International Journal of Psycho-Analysis,

Journal de la Psychanalyse de l’Enfant, Kinderanalyse, Psichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza,

Psychiatrie de l’Enfant, Psychoanalytic Study of the Child, Rivista di Psicoanalisi,
Winnicott Studies, Bulletin de la Fédération Europeenne de Psychanalyse (FEP),
Revue Française de Psychanalyse.



Premessa introduttiva

Nella nostra epoca, in cui l’allarme per la denatalità crescente ci inquieta e ci preoccupa come collettività e come individui, le vicende che riguardano le origini della vita, i momenti della nascita, l’esperienza della maternità, richiamano ad un’attenzione più acuta: come operatori impegnati nel supporto allo sviluppo e all’infanzia, siamo consapevoli della necessità di preservare soggetti così vulnerabili – la donna nelle fasi del concepimento, della gestazione e del puerperio, il neonato e il lattante – durante i passaggi critici che precedono o accompagnano la nascita di un nuovo individuo. Ma tale consapevolezza può e deve essere condivisa con tutta la comunità, ed alcuni episodi che l’informazione ci rende noti sono una dolorosa evidenza di questa necessità.

L’evolversi delle nuove tecnologie relative alla fertilità e alla procreazione assistita ha reso possibile l’esperienza della generatività anche in condizioni che sembravano precluderla. Il superamento di limiti ‘biologici’ prima invalicabili, per quanto sia ormai un dato consolidato, non può comunque porre in ombra l’impegno emotivo connesso a quanto avviene intorno ad una nuova nascita, premessa necessaria alla creazione materna dell’ambiente affettivo per il nuovo nato.

L’esperienza della maternità comporta una rimessa in discussione del sentimento di identità materno, una ridefinizione dei confini personali, resi meno stabili e certi rispetto al mondo esterno. Questo passaggio si accompagna spesso a sentimenti di generica tristezza (il ‘blues’ materno, termine coniato da Winnicott), ma talvolta può realizzarsi un impegno emotivo più massiccio fino ad assumere la forma di una peculiare depressione.

Le segnalazioni presentate in questa rubrica affrontano questi temi secondo un vertice psicodinamico, testimoniando l’impegno a coniugare la riflessione psicoanalitica con i metodi della ricerca e osservativi. I due lavori presentati affrontano nodi critici per maternità peculiari, e introducono gli studi su questa materia con espressioni particolarmente incisive: sentire il figlio come proprio, come nell’ovodonazione, o garantire spazio per la mente della madre, quando si affaccia la depressione post-partum.

Nel primo articolo si affronta la difficile appropriazione dell’esperienza della maternità quando questa avviene per ovodonazione: attraverso interviste semistrutturate e qualitative, vengono indagate le rappresentazioni interne, i vissuti di ambivalenza ed estraneità, il tema del ‘segreto’. A seguire, si discute uno studio condotto con madri che presentavano una depressione post-partum, a partire dalla valutazione di colloqui secondo un metodo di ricerca psicoanalitico, individuando come dimensioni da indagare, accanto al rapporto della donna con la propria stessa infanzia e storia personale, le questioni relative al sostegno ricevuto dall’ambiente, durante la gestazione e nelle prime fasi della maternità.

Il diventare madre, la nascita di un bambino implicano necessariamente l’interazione con un ambiente che, della maternità e della nuova nascita, rappresenta la condizione e il garante. È ben chiaro a psicoanalisti e terapeuti dell’età evolutiva che in quella “impressionante cesura” rappresentata dal parto, come momento di separazione fra gestante/madre e nascituro/neonato, le cure ambientali sono un elemento vitale e vitalizzante; luogo di gestazione, oltre che per la nascita biologica, di quella che sarà la nascita di una nuova mente.

Laura De Rosa



Imrie S., Jadva V., Golombok S. (2020).                    

“Making the child mine”: mothers’ thoughts and feelings about the mother-

infant relationship in egg donation families.

Journal of Family Psychology, 34, 4, 469-479. http://dx.doi.org/10.1037/fam0000619

Questo interessante articolo dal titolo “Fare mio il bambino” è il frutto di uno studio qualitativo condotto con 85 donne che sono ricorse alla procreazione assistita eterologa con ovodonazione in alcune cliniche del Regno Unito. Tramite interviste qualitative e semistrutturate (Parent Development Interview) gli autori hanno esplorato esperienze, paure e difficoltà specifiche connesse con la mancanza di un legame genetico tra la madre e il suo bambino, in un campione molto ampio ed omogeneo di donne eterosessuali conviventi col partner, padre biologico del bambino, di età compresa i 6 e i 18 mesi. Lo studio si inserisce in un panorama in cui, nonostante il costante aumento del concepimento tramite ovodonazione, sono ancora carenti le ricerche (non quantitative) e la letteratura sulle rappresentazioni interne delle madri riguardo al loro legame con il bambino concepito con ovodonazione, e riguardo all’evolversi di tali rappresentazioni nel corso del primo anno di vita.

Sono emersi otto temi significativi nell’esperienza della relazione primaria madre-bambino che si sviluppano attorno al tema centrale “Fare mio il bambino”, oltre che una grande variabilità individuale sia nel contenuto che nell’intensità delle preoccupazioni e dei sentimenti di ambivalenza ed estraneità associati con la maternità non-genetica espressi nelle interviste. Su ognuno di questi temi gli autori tracciano interessanti confronti con l’ampia letteratura già esistente sull’adozione e sulle strategie a cui inconsapevolmente ricorrono le madri adottive, strategie come la “rivendicazione della genitorialità” o il “rigetto delle differenze” o la ricerca di una nuova appartenenza a gruppi di genitori non genetici. L’ampio ventaglio di strategie cognitive, ampiamente documentate nella genitorialità adottiva e ritrovate anche da questo studio nelle madri che sono ricorse alla ovodonazione, ricoprono la funzione di costruire l’identità della donna come madre, l’aiutano a sentirsi ‘legittimata’ come tale.

Le notevoli similitudini nell’esperienza dei due tipi di genitorialità ‘non tradizionale’ – l’adozione e la procreazione assistita – sono legate sia alla preoccupazione di non essere capaci di amare un bambino non geneticamente imparentato, al timore di sentirlo estraneo o essere percepiti da lui come estranei e non riuscire a creare con lui un legame, sia all’elaborazione dell’infertilità e del lutto del bambino immaginato (il bambino concepito naturalmente). In entrambi i casi viene riportata anche una sofferenza legata allo stigma sociale rispetto alla genitorialità non tradizionale ed un notevole influsso di fattori socioculturali.

Dallo studio emergono però anche rilevanti differenze con l’adozione. Nel caso dell’ovodonazione la presenza di un padre biologico, del legame gestazionale con il bambino dato dalla gravidanza, e delle complesse dinamiche connesse con il segreto dell’origine che molte coppie decidono di mantenere, crea vissuti nuovi, che devono essere esplorati. Paradossalmente dai dati riportati sembra che il segreto, che molte donne mantengono rispetto al metodo di concepimento, determini una continua esposizione alla ferita di non essere la madre genetica a causa dei frequenti commenti delle persone (ignare del metodo di concepimento) sulle somiglianze fisiche tra madre e bambino. Inoltre vi è la questione di quale posto la madre possa assegnare nel suo mondo interno alla donatrice, come stabilire una giusta distanza interna dalla figura della donatrice di cui, anche quando è anonima, il bambino (nel Regno Unito) potrà conoscere l’identità al compimento della maggiore età.

Un importante risultato dello studio è che la grande maggioranza delle donne intervistate dichiarano di sentirsi sicure e confidenti nella loro identità di “vere” madri del bambino entro la fine del primo anno di vita dello stesso.

Un aspetto particolarmente prezioso dell’articolo è rappresentato dalle tantissime citazioni dalle interviste che permettono al lettore di entrare direttamente in contatto con i sentimenti e le paure espresse dalle madri. Così, per esempio, seppure per alcune donne la gravidanza ha potuto riparare appieno al vissuto di estraneità legato alla PMA eterologa, per altre questo vissuto ha gettato un ombra su tutta la gravidanza, p.e. “Questa era tutta la mia preoccupazione… avrei potuto creare un legame con questo bambino? La mia più grande paura era che il bambino pensasse – chi diavolo sei tu?”. Molte madri poi danno voce ad una tristezza di fondo, continuamente presente seppure non soverchiante, legata alla mancanza del legame genetico. Molto interessante anche le motivazioni addotte dalle madri rispettivamente per la scelta di una donatrice anonima, o piuttosto una donatrice appartenente alla famiglia. Nell’uno e nell’altro caso la scelta è stata fatta con la speranza di rinforzare o proteggere il senso di appartenenza del bambino alla famiglia (p.e. il timore che una donatrice non anonima un giorno possa reclamare il figlio; oppure la speranza che una donatrice appartenente alla famiglia garantisca alla madre una maggiore somiglianza fisica al proprio figlio).

L’importanza di questo articolo, a nostro avviso, risiede nella sua capacità di evidenziare quanto l’ovodonazione ponga delle sfide ulteriori ad una madre nella sua costruzione del legame affettivo con il bambino. Conoscere i vissuti comuni a molte donne che ricorrono alla ovodonazione è estremamente utile per declinare interventi futuri sia di prevenzione che di sostegno psicoterapeutico, in quanto permette di non colpevolizzare le donne per i loro vissuti di estraneità del bambino, ma piuttosto aiutarle a riconoscerli come parte integrante di questo percorso alla genitorialità.

Veronika Garms


Tyson C.H., O’Connor J., Sheehan J.D. (2021).                    

No space for mother’s mind: a psychoanalytically oriented qualitative study of the experiences of women with a diagnosis of postnatal depression.

International Journal of Applied Psychoanalytic Studies, 18, 4, 293-407.

Questo interessante lavoro, clinico e di ricerca, pone al centro il tema della depressione post-partum, ripensata in chiave psicoanalitica. Gli autori conducono il lettore attraverso una rilettura di questa tematica, sottolineando come spesso, all’interno del termine depressione post-partum, confluiscano una serie di stati d’animo materni, proteiformi e di difficile identificazione, che hanno un forte impatto sulla salute psicofisica sia della donna, ma anche del bambino e del contesto delle relazioni in cui si trovano inseriti.

Nella prima parte dell’articolo possiamo leggere un’interessante disamina teorica che ripercorre i più importanti autori di area psicodinamica che si sono occupati di questo tema. Si passa da autori psicoanalitici più classici, tra cui Winnicott, Bion, Rank o la Greenacre, parlando di aspetti fondanti come la rêverie materna, il rispecchiamento o il tema della nascita, fino ad arrivare ad autori più moderni, che tentano di coniugare il pensiero psicoanalitico con aspetti di ricerca in campo infantile. Interessante, tra gli altri, il contributo di Goodman che mette in luce, attraverso studi empirici sulla qualità della relazione tra la madre e il suo neonato, come il benessere psichico della madre abbia un impatto molto importante sulle prime capacità relazionali del bambino, quali lo sguardo reciproco oppure la capacità di usare la mimica facciale per comunicare ad un altro i propri stati d’animo e le proprie intenzioni. Ma, come sottolineano gli autori, la maggior parte dei lavori su questo tema si è indirizzata o sulla ricostruzione dei vissuti materni all’interno di percorsi psicodinamici, esplorati attraverso costrutti psicoanalitici, come l’ambivalenza o l’idealizzazione, o sulla ricerca degli effetti della depressione post-partum materna sul bambino, utilizzando questionari valutativi o osservazioni microanalitiche dei primi scambi relazionali. Pochissimi sono stati i tentativi di coniugare una lente psicoanalitica con un approccio empirico nella comprensione di questa tematica.

A causa di questo vuoto, gli autori di questo interessante contributo hanno cercato di mettere insieme, usando un modello psicodinamico, vissuti emotivi ed evidenze empiriche. Infatti, è stato utilizzato un metodo di ricerca di natura psicoanalitica per accedere ai vissuti delle donne nella fase del post-partum. Gli autori hanno svolto sei colloqui con donne che avevano partorito da pochi mesi ed avevano sintomi di depressione post-partum che le facevano sentire in difficoltà nell’accudimento del loro bambino e nella loro nuova esperienza emotiva come madri. Gli autori, utilizzando la trascrizione verbatim e una metodologia empirica nella valutazione dei colloqui, hanno individuato, per tutte le donne, quattro temi fondamentali:


1) la presenza di esperienze difficili durante la nascita e nelle prime fasi dell’allattamento;

2) l’assenza e/o la scarsità di sostegno nei momenti vissuti come complessi durante la gravidanza;

3) la mancanza di elaborazione dell’esperienza della gravidanza e della nascita nell’ambiente relazionale che le circondava;

4) sentimenti sgradevoli legati alla maternità, che si collegavano alla propria storia infantile e familiare.


In tutti i colloqui, tenendo sempre ben presenti le differenze individuali, emergeva chiaramente come tutte le donne si sentissero emotivamente insoddisfatte dell’esperienza della maternità e della nascita del proprio bambino, sia rispetto a loro stesse come madri, sia rispetto al sostegno che si aspettavano di ricevere dall’ambiente di vita a loro più vicino. Tutte le donne provavano sentimenti intensi di solitudine e la mancanza di un ambiente con cui poter condividere ed elaborare questi sentimenti spiacevoli. Inoltre, le numerose attenzioni che il sistema sanitario offriva al nuovo nato facevano sentire queste madri invisibili nei loro bisogni e profondamente gelose del loro bambino, fino al punto di sentire il bisogno di rifiutare e allontanare il piccolo, vissuto, in alcuni casi, come colui che impediva all’ambiente di occuparsi della loro salute. Le madri sentivano che l’unico aspetto centrale diventava l’allattamento al seno, a discapito di un’attenzione emotiva verso i loro sentimenti. Nella maggior parte delle situazioni analizzate, le naturali fatiche nelle prime esperienze di allattamento venivano vissute come drammatici segni di incapacità, poiché l’allattamento diventava l’unico canale di attenzione che la madre sentiva da parte dell’ambiente sanitario e familiare. La tenuta emotiva della madre sembrava essere poco considerata, con conseguenze negative sulla capacità materna di tenere nella sua mente il piccolo appena arrivato. Inoltre, in tutte le esperienze riportate, non era stato possibile creare uno spazio relazionale in cui la madre potesse permettersi di portare i vissuti di perdita e di abbandono legati alla conclusione della gravidanza. Tutte le donne descrivevano un ambiente sanitario efficiente dal punto di vista pratico, ma poco attento alla loro personale esperienza emotiva e a quella dei loro partner.

Gli autori nella parte finale del contributo riflettono, in modo a nostro parere molto interessante, su come la ricerca esplorativa da loro condotta possa avere un impatto sui contesti ospedalieri: in essi appare fondamentale affiancare alla cura pratica della gravidanza e del parto anche la cura degli aspetti psicologici. Infatti, dai dati ottenuti, appare fondamentale prendersi cura degli aspetti emotivi che riguardano la madre e l’ambiente affettivo che potrà creare nel rapporto con il suo bambino. Inoltre, gli autori prendono in considerazione il complesso ambito tematico che si riferisce all’infanzia delle madri e all’impatto che le storie infantili possono avere sul diventare madri. Riprendendo la teorizzazione di Fraiberg, mettono in luce come i “fantasmi materni”, ma anche paterni, provenienti dal passato dei genitori, possano avere echi importanti nel modo in cui il bambino viene tenuto nella mente dei genitori. Infatti, la presenza di famiglie di origine in cui manca lo spazio per elaborare esperienze ambivalenti e difficili, frequentemente torna in primo piano al momento della nascita del bambino. I familiari sembrano negare alla madre quella fondamentale fase elaborativa inziale che dovrebbe permettere alla mente materna di essere contenuta nelle proprie esperienze ambivalenti, con l’obiettivo che la madre, così accompagnata, possa prendersi cura mentalmente del proprio bambino, tollerando i complessi processi di proiezione ed introiezione necessari alla costruzione della mente infantile. Gli autori, riprendendo gli studi empirici di vari ricercatori, tra cui Blum e Waters, mettono in evidenza come conflitti relazionali della madre con i propri genitori possano riemergere nei primi scambi con il neonato e affollare la mente materna, che diventa così incapace di vedere i bisogni del proprio bambino e la sua realtà psichica. Gli autori, attraverso numerose riflessioni scaturite dai colloqui effettuati, che ben coniugano una prospettiva psicodinamica con aspetti empirici, ribadiscono l’importanza, in accordo con la teorizzazione di Winnicott, dell’ambiente emotivo per la salute psichica e fisica del neonato, e come quest’ambiente possa avere delle qualità adeguate solo se si crea un ambiente di sostegno durante la gravidanza e la nascita per la donna e le persone che sono a lei vicine. E questo ambiente sembrerebbe essere l’unica forma di protezione verso vissuti depressivi, che tanto spesso accompagnano l’esperienza della gravidanza e della maternità. Quindi, un ambiente, familiare e sociale, in grado di offrire uno spazio mentale adeguato alle vicende psichiche della madre, permetterà a quest’ultima di offrire al proprio figlio quell’ambiente affettivo di base che gli consentirà di far crescere un Io forte, differenziato ed autonomo.

Silvia Cimino