Io capitano

Regia di Matteo Garrone (2023)

aurora gentile




Io capitano è un film del 2023 diretto da Matteo Garrone. Il film tratta dell’emigrazione africana ed è stato insignito del Leone d’argento all’80esima Mostra del Cinema di Venezia e del Premio Marcello Mastroianni all’attore esordiente protagonista Seydou Sarr. È stato candidato all’Oscar per l’Italia dopo il grande successo di critica e pubblico.

Il film va visto. Senza nessun calcolo politico, senza sentimentalismo da vetrina, è implicitamente una critica del cinismo che qualifica il mercato delle immagini in tema di immigrazione nei nostri tempi, distruggendo così anche le nostre emozioni. Il film punta a ricreare un’esperienza in un mondo globalmente indifferente, lontano da ogni soggettivazione sociale. Matteo Garrone ha preso spunto dal suo incontro con un adolescente in un campo italiano di rifugiati per raccontare questa storia dal punto di vista di coloro che rischiano la loro vita in mare e nel deserto. Molto del suo lavoro si è avvalso della collaborazione con migranti sopravvissuti a questa esperienza traumatica. I suoi personaggi, molto credibili, parlano wolof, francese, inglese, italiano o arabo e sono interpretati per la maggior parte da attori non professionisti, a cominciare dal protagonista Seydou Sarr. Il film, girato in Marocco, in Italia e in Senegal, affascina anche perché nonostante l’impianto neo-realistico a tratti diventa una fiaba con l’impiego di sorprendenti effetti visuali che potrebbero essere letti come un sogno o forse come eventi astrali. Quale film oggi più di questo sostiene il diniego (a volte necessario, del rischio di morte per poter realizzare un sogno), l’illusione (di poter risuscitare i morti e tenendoli per mano farli volare in alto, in cielo) e della speranza (di farcela, che tutto finirà bene, che il sogno si realizzerà)?




*Rubrica a cura di S. Oliva (coordinatrice), M. Rossi, A. Gentile e G. D’Amato.


Il grande interesse del film è che ci presenta un altro aspetto della realtà delle migrazioni con un’operazione di smontaggio della narrazione totalitaria che ha come oggetto soprattutto l’arrivo dei migranti sulle frontiere europee per ritornare alle terre da cui partono e quindi rimontare la loro storia in altri modi, con diverse immagini. Gli adolescenti protagonisti del film non sono gli adolescenti di Daesh, affiliati a un progetto grandioso, divino, a servizio di una ideologia radicale, non li spinge un io ideale onnipotente che pretende la vita in cambio del paradiso. Non sono neanche quelli rappresentati nei telegiornali, scalzi e senza risorse, senza nome e identità, la cui storia è circondata di leggende, esagerazioni o troppo spesso di ignoranza. Questi ragazzi attestano la possibilità di esprimere un rifiuto dell’attuale, permettendoci di vedere diversamente o di vedere ciò che ancora non c’è. Un diniego, se si vuole, di un certo reale, della dimensione anonima e senza senso di tutti i morti in mare, che introduce un possibile e apre all’invenzione di una nuova vita, un diniego articolato al principio-speranza: questi adolescenti sono dei sognatori, i dreamers del XXI secolo. Un’operazione dunque assolutamente in controtempo che rappresenta il tentativo di non soggiacere ad unica realtà immobile nel tempo e della necessità di prendere posizione di fronte a questo buco nero della storia. Seydou, infatti, pur rimanendo aderente alla realtà e tollerandola quando inevitabile, cerca comunque di modificarla se possibile e comunque l’affronta. Il segreto di questi adolescenti è di andare controcorrente sostenuti dalla speranza. C’è una bellissima poesia-canzone di Italo Calvino Oltre il ponte (1959),1 nella quale egli canta il necessario e temerario eroismo per vincere la paura e accettare il rischio per realizzare un proprio sogno. La prima strofa si rivolge a una ragazza “dalla guance di pesca, dalle guance d’aurora” che rappresenta la giovane generazione. “Cantare mentre tutto il resto non canta”, a sedici anni dovrebbe essere così.

 

Non è detto che fossimo santi / l’eroismo non è sovrumano / corri, abbassati, dai corri avanti! / ogni passo che fai non è vano. / Vedevamo a portata di mano / oltre il tronco il cespuglio il canneto / l’avvenire di un giorno più umano /e più giusto più libero e lieto / Non è detto che fossimo santi/ l’eroismo non è sovrumano.


Il viaggio di cui si parla in questo film non è un’erranza, ma una sorta di rito iniziatico, non siamo nel territorio dell’errare per sopravvivere e per fuggire il vuoto, ma in quello dell’eroe adolescente che si espone al pericolo e mette alla prova il corpo.



La storia


La trama è stata costruita a partire da due storie vere, quella di due ragazzi senegalesi, cugini, che hanno affrontato il lungo viaggio verso l’Italia attraverso il deserto e i centri di detenzione libica dove sono stati anche torturati, e quella di un altro ragazzo che ha portato 250 migranti sulle coste italiane, guidando uno scafo (senza che ci siano state vittime) e che per questo ha scontato anche sei mesi di carcere in Italia. Neanche un dettaglio di questo film che non sia documentato, che non abbia attinto direttamente alle fonti e alle testimonianze.

Il racconto si sviluppa a partire dalla vita dei ragazzi nel loro quartiere che è una vita di povertà, ma tranquilla: non vediamo boss della mafia locale che vengono a rapinare quel poco che ha la gente, nessuna incursione armata di militari o ribelli, come accade in altre regioni del continente africano. I nostri due protagonisti parlano con qualcuno che “ha fatto il viaggio”, che li scoraggia, in particolare la madre di Seydou che non vuole che lui parta. Seydou e Moussa però non vogliono rinunciare al loro sogno ma pur sfidando gli interdetti materni dedicano del tempo prima della partenza per consultare il capo religioso locale per avere l’autorizzazione dei loro antenati a viaggiare, pronti a partire dunque ma non a recidere i legami con la loro origine.

All’alba finalmente un giorno la partenza ha luogo. Attraversano il Mali, il Niger, e poi l’immensa distesa del Sahara. La fila dei migranti si snoda tra le dune alte, correndo sulla sabbia. I nostri protagonisti conosceranno ben presto la brutalità della polizia libica e quella, ancora peggiore, del centro dove i migranti sono raggruppati per nazionalità e torturati perché chiamino le loro famiglie per farsi spedire del denaro e così riacquistare la loro libertà. Scene agghiaccianti che stentiamo a riconoscere come possibili, ma qui è la potenza stessa del cinema a svelarci l’incubo di cui troppo spesso è intessuto il reale. Quando infine i due amici si ritrovano sono pronti a imbarcarsi a Zuara, che negli ultimi anni è divenuto un importante luogo d’imbarco per i migranti africani per raggiungere le coste di Lampedusa e della Sicilia. Il passeur che organizza il viaggio su una malandata barca da pesca la affida a Seydou (“hai 16 anni, non rischi niente”) dopo avergli dato qualche istruzione del tutto insufficiente. “L’Europa è là, basta tenere il timone a nord”, intanto a bordo, l’acqua potabile verrà ben presto a mancare, ma al timone c’è un coraggioso capitano.

Il viaggio ha inevitabilmente bruciato la sua innocenza infantile, ma Seydou ha trovato comunque le risorse dentro di sé per proteggere il suo progetto, in cui tutta l’energia della vita, la sua capacità d’invenzione, di astuzia, di decisione, di ostinazione con il suo genio a cogliere anche l’occasione più improbabile, sono state messe in campo. Alla fine può gridare “Io il capitano, mi prendo la responsabilità”. “Io”. Gli adolescenti ereditano gli ideali dell’infanzia e i loro oggetti meravigliosi e occorre una trasformazione per passare dall’ideale grandioso che esige l’impossibile all’ideale che porta il movimento progrediente e la stima di sé nel registro del possibile. Si comprende che è una lunga marcia che richiederà del tempo. Da questo punto di vista l’adolescenza è un inizio, anche se è un nuovo inizio. Le problematiche dell’Ideale e della Speranza (e il suo contrario la resa) sono dunque le chiavi dell’adolescenza, anche se ci accompagnano tutta la vita.

La scena finale, avvolgendo le parole del protagonista e la sua fierezza in un ambiente sonoro particolarmente forte e l’uso prolungato del primo piano del suo volto, fa penetrare lo spettatore nel profondo di quello che accade sullo schermo. Si esce con un sentimento d’ingiustizia che prende il corpo, con una profonda ammirazione per il coraggio di queste persone e con in testa qualche magico passaggio poetico, così come resta lo stridente contrasto tra la bellezza dei luoghi attraversati e le infamie di cui l’Uomo è capace.




1Ringrazio la dott.ssa Silva Oliva che mi ha fatto scoprire questa poesia-canzone di Italo Calvino che non conoscevo.