Segnalazioni bibliografiche

Premessa introduttiva

Il termine “cambiamento” attraversa la psicoanalisi da sempre, perché è insito nella natura umana. Cambiamento come crescita, passaggio, conoscenza di se stessi, ma anche come rottura, catastrofica, incapacità di elaborazione e negazione di un’autentica vitalità. Gli articoli che segnaliamo parlano di “cambiamento” e ci offrono interessanti e profonde suggestioni. Cambiare come passaggio fondamentale verso l’emergere del soggetto, ma anche come impossibilità di attraversarlo, perché collegato ad un trauma insuperabile. Cambiare, per l’essere umano, è qualcosa di necessario, ma anche di profondamente traumatico. Considerando il concetto freudiano di “membrana protettiva”, Khan formula il suo concetto di esperienza catastrofica, e dunque traumatica, partendo dall’intuizione di Winnicott secondo cui il bambino ha bisogno di una mente adulta presente che, nelle prime fasi della vita, permetta lo strutturarsi di un sé nascente, proteggendolo dall’impatto catastrofico con l’esterno. Esperienze di cambiamento vissute come catastrofiche possono riferirsi a ripetute intrusioni ambientali che superano la barriera protettiva e che non possono essere elaborate dall’apparato psichico. La funzione di membrana protettiva per la mente corrisponde alla competenza emotiva dell’ambiente relazionale, il quale dovrebbe capire intuitivamente quali sono le esperienze psichiche che il bambino è in grado di tollerare nelle varie fasi del suo sviluppo. E allora, come possiamo sopravvivere al cambiamento, necessario e pericoloso nello stesso tempo, resistendo alle spinte distruttive e catastrofiche che albergano nel nostro inconscio? I precursori del pensiero e dell’affettività, che si formano all’interno delle prime relazioni significative, possono essere disturbati da una serie di eventi soverchianti che restano nello psichismo come tracce mnestiche implicite, impossibili da ricordare con la memoria esplicita, ma che segnano pesantemente lo sviluppo psicofisico individuale e manifestano i loro effetti nel corso dello sviluppo. Quando i nostri pazienti, bambini, adolescenti, giovani, cercano, con noi, di mettere insieme aspetti del passato con le esperienze attuali, aprendo nuove strade verso la separatezza, tendiamo a vivere ed elaborare con loro un’angoscia catastrofica profonda, che si collega alla perdita di parti di sé, sentite come estremamente fragili. L’angoscia che emerge nel nostro lavoro clinico, molto spesso, si riferisce sia alla non integrazione, ma anche alla possibilità di integrazione, come teorizzata da Gaddini e alla prima possibilità di lasciar andare qualcosa che è rimasto in un luogo angusto del sé senza mai poter essere sentito ed elaborato, che sembra rimandare proprio ai primi incontri relazionali, a quello stato preverbale così centrale per la strutturazione del sé. Crescere, cambiare, elaborare implica sempre un cambiamento catastrofico, cioè la perdita di quel filo di esistenza passata che, però, costituisce anche la spina dorsale più autentica dei nostri pazienti con la quale, nel corso di un lavoro psicodinamico, si può tentare di venire in contatto per trovare nuovi modi di sentirla, rappresentarla, immaginarla e pensarla in un lavoro condiviso.

Silvia Cimino

Günter M (2023).                    

Entwicklung als Gefahr und Veränderung als Katastrophe.

Kinderanalyse, 31, 4, 321-329.

“Il carattere distruttivo non vede nulla di duraturo. Eppure, proprio per questo motivo vede delle vie ovunque. Lì dove altre persone si imbattono in muri e montagne, lì vede una via. Siccome vede una via ovunque, deve anche sempre e ovunque togliere di mezzo qualcosa. […] Riduce in macerie l’esistente, non per le macerie [in sé], ma per la via che le potrà attraversare”.

Queste affermazioni del filosofo tedesco Walter Benjamin fanno da sfondo al bellissimo articolo di Michael Günter dal titolo Sviluppo come pericolo e cambiamento come catastrofe. L’articolo si interroga, a partire da diverse vignette cliniche (una terapia di gruppo, due terapie di adolescenti ricoverate con grave patologia antisociale, e una terapia infantile) sulla sfida terapeutica rappresentata da quei casi in cui una coazione a ripetere di tipo distruttivo, un persistente negativismo ed una estrema oppositorietà tengono l’individuo prigioniero in un’identità negativa. Da una parte l’individuo sembra così chiudersi ad ogni prospettiva positiva per il futuro, e dover attaccare, anche nell’analista, ogni tentativo di cambiamento, continuando ad assumere su di sé le attribuzioni negative che provengono dagli altri, come se tale identificazione negativa rappresentasse l’unica certezza rispetto ad un timore catastrofico evocato da qualsiasi cambiamento. Dall’altra parte però, in particolare in casi di grave deprivazione o abuso ambientale nel passato, come quelli qui riportati, secondo l’A. – sulla stregua di Benjamin – va riconosciuta la valenza positiva di un atteggiamento distruttivo che può costituire per l’individuo l’unica possibile via per aprire nuovi spazi e varchi tra le macerie di un passato traumatico, e può rafforzare al contempo un sé molto fragile, dominato da grande insicurezza, paura, terrore. 

Se questi pazienti temono ogni sviluppo come un grande pericolo, se sono incapaci di volgere lo sguardo verso il futuro, perché il loro sguardo è fissato su un passato traumatico, che però non possono affrontare in quanto troppo oscurato da catastrofici sentimenti di abbandono e auto-accusa, rancore e negativismo, allora si tratterebbe – secondo l’A. – di poter innanzitutto riconoscere nello spazio terapeutico la violenza subita e la violenza che ora il paziente stesso infligge agli altri; spesso invece, come nel caso di una delle adolescenti citata da Günter, il paziente tende a minimizzarle. Inoltre, si tratterebbe di riconoscere la richiesta che attraverso gli attacchi distruttivi (anche al terapeuta) implicitamente il paziente rivolge all’altro: che l’altro possa vedere nel comportamento distruttivo la fantasia/speranza di una via d’uscita dall’annientamento di sé e che vi possa riconoscere una capacità di resistere, un atto di libertà e una lotta per la libertà. Qui Günter si ricollega al pensiero di Winnicott (1984) secondo cui un comportamento antisociale potrebbe essere legato alla sensazione di essere stati privati di qualcosa di essenziale e alla speranza di trovare un oggetto così capace di resistere agli attacchi e così affidabile da permettere di riguadagnare la propria libertà e spontaneità, ma anche di uscire da una coazione a ripetere attraverso l’apertura di uno spazio di gioco. 

Per spiegare il bisogno dei pazienti di aggrapparsi in maniera persistente a delle identità negative, Günter ricorre nelle sue riflessioni anche al concetto di “capacità negativa”. Il concetto di “capacità negativa” è stato sviluppato da Bion (1984) a partire dal pensiero del poeta Keats, come capacità di essere in contatto con stati d’animo molto contraddittori, di tollerare stati di insicurezze, ambivalenze, confusioni e dubbi senza dover necessariamente risolvere questo non-sapere aggrappandosi a delle certezze, quindi senza doverlo sottoporre a un giudizio, o a una categorizzazione razionale. Per l’analista ciò significa essere capace di attendere, essere capace di ascoltare il paziente e di parlargli con parole che non spieghino l’emozione ancora informe, ma piuttosto permettano al paziente di viverla e coglierla. Secondo Günter nei pazienti di cui si occupa l’articolo tale “capacità negativa” sarebbe fortemente carente, e di conseguenza può essere messa a dura prova anche nell’analista.

Infatti, questi pazienti, per difendersi dalla sensazione di estrema insicurezza, di essere alla mercé della propria affettività travolgente, dalla sensazione penosa di non-sapere e di una totale mancanza di fiducia in sé stessi, tendono ad aggrapparsi rigidamente a delle identificazioni di tipo negativo.

In tal senso Günter legge anche una sua esperienza di una seduta di terapia di gruppo in un reparto di adolescenti (dai 15 ai 17 anni) ricoverati, in cui in maniera del tutto inattesa e improvvisa, più della metà si dichiararono transessuali. Günter si chiede che funzione possa avere questa identificazione come transessuale, al di là della complessa questione (diagnostica e terapeutica) della incongruenza di genere, in cui non vuole entrare. Si interroga se per alcuni adolescenti un’identità transessuale possa avere una funzione di rassicurazione di sé: “sono un’altra, sono un altro, e questo mi dà un senso di identità e non significa che io mi debba sentire inferiore o fallito o malato”. L’identità transessuale potrebbe per il ragazzo avere il valore positivo di una opposizione rispetto allo status marginale di persona psichicamente malata. 

Nel suo complesso l’articolo di Günter ha il grande pregio di evincere molti interrogativi dalle importanti implicazioni terapeutiche: quali “vie” possono essere aperte dal “ridurre tutto in macerie”? Rispetto a quali timori di cambiamento catastrofico un atteggiamento distruttivo può rappresentare una protezione e conferire forza al ragazzo? Quale può essere il suo valore trasformativo? E come le nostre interpretazioni possono riconoscere in tale potenziale distruttivo una forza, senza dimenticare di porvi un confine, un limite che possa arginare proprio la paura che nasce dalla potenza distruttiva?

In fondo questi interrogativi riguardano la psicoanalisi stessa: ogni interpretazione rompe, apre e distrugge qualcosa, e deve al contempo tenere conto continuamente della paura evocata da un cambiamento catastrofico.

Veronika Garms


Ferro A (2021).                    

Like a fish in water.

Psychoanalytic Psychology, 38, 2, 140-141.

“Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”, con queste parole Ulisse incita i suoi a spingersi oltre le colonne d’Ercole e liberarsi dalla prigionia che le regole infliggono alla mente umana. Uno dei versi più belli e rivoluzionari della Divina Commedia per aprire un articolo breve ed intenso che riflette sui diversi livelli del potenziale beneficio per il lavoro analitico conseguente ad un cambiamento catastrofico. Se, sostiene Ferro, il nostro lavoro è improntato sulla ricerca di significati, questo è ancora più vero in un momento di emergenza. Come ogni specie vivente abbiamo cercato di rendere sicuro il nostro habitat, scoprendo che un evento, una calamità può spazzare via ogni certezza. È stato un virus a minacciare l’illusorietà della certezza, esponendoci alla necessità di rivedere le nostre fantasie di onnipotenza per non dare più nulla per scontato. E, se l’imprevedibile si è imposto come compagno di viaggio, allora l’A. propone di rileggere il proprio studio come un osservatorio privilegiato. Lo smantellamento del caposaldo del setting in presenza per aprirsi alle sedute da remoto, ci ha posto di fronte ad un cambiamento inimmaginabile prima di ora, il crollo di una pietra angolare che ci vedeva racchiusi con il paziente in uno spazio codificato.

Così sembra essersi avviato un processo di luttuosa elaborazione di una perdita, quella della convinzione profonda dell’immutabilità delle cose.

Su questo filo di pensiero l’A. si chiede se i cambiamenti apportati alla teoria e alla tecnica durante l’evento pandemico, facendo di necessità virtù, continueranno ad essere utili nel tempo, anche nel ritorno alla normalità. La risposta sembra essere proprio nella rinuncia al concetto di immutabilità e nel riconoscimento del valore della flessibilità, individuando ancora nell’invarianza qualcosa di prezioso solo se può essere modificato nel momento della necessità.

Riflettendo sulle differenze dal modello classico che ha egli stesso trovato e scoperto con i suoi pazienti nelle sedute da remoto, navigando oltre i confini del conosciuto, ci pone di fronte ad una sorta di diario di bordo, rinvenendo un’atmosfera più giocosa, una maggiore elasticità metodologica, l’intenso senso di solidarietà dell’essere “tutti sulla stessa barca”, ma anche un approccio psicoanalitico maggiormente oscillante tra posizioni winnicottiane, nel dare spazio al gioco verbale, e bioniane, nel focalizzarsi in particolare sulle funzioni oniriche. Allo stesso tempo sembrava essere venuta meno la “sovranità interpretativa”, ma anche aumentata la fiducia nel modello psicoanalitico come più adatto ad un momento di emergenza. Un altro aspetto prezioso ed innovativo, riflette ancora Ferro, è dato dall’ingresso nella seduta di alcuni aspetti della “realtà” privata dei pazienti, scorci della propria abitazione, tracce della propria umanità, quella che definisce una sorta di “sonda” dietro le quinte.

Più in generale egli ritiene che, come in alcuni disaster movies, la perdita di ogni certezza apre alla possibilità di sviluppare la fede, non in senso mistico, ma come generatore di speranza, tema di grande interesse per Bion, che fa proprio riferimento al “cambiamento catastrofico” che si verifica dopo la perdita inaspettata di qualcosa su cui facciamo affidamento. Dunque un cambiamento catastrofico implica sempre qualcosa di nuovo e gli psicoanalisti in questo particolare momento storico si sono trovati in una posizione simile, accompagnando i propri pazienti verso prospettive nuove ed alternative sulla vita. La capacità di piangere e la capacità di accettare una nuova realtà sono diventati per l’A. pilastri essenziali del nuovo panorama psicoanalitico.

Allo stesso tempo la de-materializzazione, la virtualità della stanza d’analisi la rende un luogo nella mente condiviso con il paziente, nella prospettiva concettuale del campo, un luogo co-creato. Questo, sostiene Ferro, apre ad una maggiore libertà mentale per i personaggi che abitano la scena analitica, come se l’assenza del corpo potesse consentire una maggiore fluidità onirica. Citando Ogden “parlare come sognare”, la seduta diventa un sogno generato da entrambi che consente alle narrazioni e alle trasformazioni di prendere il posto del non ancora pensabile. Spingendosi ancora oltre, la “capacità negativa”, che Bion riprende da Keats come la capacità di sperimentare e tollerare il dubbio e l’incertezza, diventerà una risorsa indispensabile nella nostra cassetta degli attrezzi analitica mentre ci spingiamo per territori inesplorati, mentre “senza memoria né desiderio” possiamo attraversare mondi insospettabili sopportando insieme con il paziente l’attesa senza essere pervasi dall’angoscia.

Flora Gigli



*Rubrica a cura di: F. Gigli (coordinatrice), M. Carboni, S. Cimino, L. De Rosa, A. Flori, V. Garms.