Monster-L’innocenza

(Titolo originale: : Kaibutsu - Monster) Regia di Hirokazu Kore-Eda (2023)

milena robert, silvia ronconi

Proponiamo una riflessione sul film di Hirokazu Kore-Eda, delicato e interessante, a partire dal titolo Kaibutsu–Monster, che nella distribuzione italiana subisce un significativo capovolgimento e diventa L’innocenza.

Monster si interseca dunque con L’innocenza perché il momento in cui finisce l’infanzia e inizia la pubertà comporta una serie di compiti evolutivi: l’integrazione della sessualità e delle nuove trasformazioni corporee, l’individuazione-separazione dal passato infantile, dal corpo e dagli oggetti parentali e l’integrazione dell’aggressività con la trasformazione dall’agire al pensare-sognare.

Si tratta di un percorso irto di insidie, durante il quale i paletti imposti dalla scuola, dalla famiglia e dalle convenzioni sociali da esse promosse possono fare da guida, ma anche da fonte di deformazione, per cui le peculiarità di un ragazzino possono trasformarsi, ai suoi occhi e a quelli del mondo esterno, in vere e proprie mostruosità. La mostruosità, d’altro canto, non appartiene solo alla lente deformata con cui gli adulti – volontariamente o meno – leggono le trasformazioni dei bambini, ma anche ad una certa ignavia insita nella società, a un sistema scolastico che è cieco e sordo alle critiche e alle esigenze del singolo rispetto alla comunità, a tutta una serie di istanze date per scontate, tra cui una visione etero normata dei sentimenti.

Partendo da questa traduzione, che ribalta il significato del titolo originale, vogliamo evidenziare il contrasto fra questi opposti significati (mostro, mostruosità opposto ad innocenza), che sembrano operare come due facce di una stessa medaglia. Diversi punti di vista, infatti, caratterizzano l’andamento del film nella sua interezza, portandoci a conclusioni contrapposte con lo scorrere della trama. Comprendere quanto una diversa soluzione ci si possa presentare, qualora si fosse disponibili a sposare una diversa ottica, diventa il tema fondante di tutta la regia di Kore-Eda ed il senso stesso del racconto.

Veniamo alla trama: l’incipit è lo scenografico incendio di un “hostess bar”, nella piccola cittadina giapponese dove si svolge la vicenda, che condensa metaforicamente il bruciante contrasto fra la formalità dell’istituzione sociale e la solitudine esistenziale dei suoi abitanti. Gli “hostess bar” e gli “host club” sono infatti dei caratteristici locali notturni giapponesi di intrattenimento: nel primo, il personale femminile si occupa di fornire drink e conversazioni agli avventori uomini; nel secondo, invece, il personale maschile si occupa delle donne. La scena si sposta all’interno della comunità scolastica del luogo, si cominciano a delineare i volti dei vari personaggi: i ragazzi della classe, i maestri, la preside, i genitori. Avviene poi qualcosa di significativo, che, tuttavia, come dicevamo, è suscettibile di diverse interpretazioni. Si snodano, quindi, una serie di diversi punti di vista, per cui la storia che credevamo di cominciare a comprendere cambia profondamente nel momento in cui si sposta la visione e il punto di osservazione da un protagonista all’altro, lasciandoci disorientati e confusi. Ma anche, a posteriori, arricchiti di una visione più complessa ed integrata.

Saori, la giovane madre vedova di Minato, un ragazzo di circa 11 anni, è molto preoccupata perché suo figlio sembra sempre più enigmatico, reticente, “strano”. Dalle poche parole che il figlio si lascia sfuggire, le sembra di intuire una storia di maltrattamento da parte del nuovo maestro Hori. L’incontro chiesto dalla madre con un’ambigua preside, traumatizzata per la recente e violenta morte della nipotina e i comportamenti altrettanto ambigui del maestro, non fanno che confermare le peggiori ipotesi di Saori.

Tuttavia, quando il punto di vista passa ad essere quello di Hori, il maestro, le cose cambiano radicalmente: egli si trova a sospettare che il suo giovane allievo Minato, trascinato dal gruppo classe, possa bullizzare Yori, un compagno fragile e che appare, agli occhi della classe, bizzarro.

L’ultimo punto di vista è quello di Minato, che ci racconta la sua amicizia con Yori, all’interno dei loro spazi di vita: la casa, la scuola, un tunnel, un rifugio tra i boschi.

In questa terza parte viene dato valore soprattutto ai loro movimenti, ai loro sguardi, agli oggetti che li definiscono, alle parole che usano e che vengono fraintese, usate e manipolate, un po’ dagli adulti e un po’ nel contesto sociale allargato. Nulla è come sembra, il vero incendio, a questo punto, non è più quello iniziale, ma quello che riguarda la scoperta della sessualità da parte dei giovani protagonisti, i quali nascondono un rapporto che, nella confusione identitaria caratteristica di questa fase della vita, sembra andare al di là di una semplice amicizia.

Ci sembrerebbe, a questo punto, di poter affermare che il mondo che Minato protegge e incarna rappresenti il mondo affettivo “dell’innocenza”, che entra in contrasto con quello di chi, come gli adulti o i compagni, creano “il mostro”, identificando l’alterità, la diversità, lo sconosciuto con una parte violenta, deforme, spaventosa.

Un esempio di quanto diciamo è quello che riguarda il piccolo Yori, l’altro protagonista del film insieme a Minato: un ragazzino ingenuo, solitario e che appare, agli occhi del gruppo dei pari, diverso ed effeminato. Il ragazzino viene denigrato e maltrattato da un padre sadico che lo convince di essere un mostro con il cervello di un maiale.

Yori, però, sente di poter condividere con Minato il suo rifugio segreto: attraverso un tunnel all’interno di un bosco, quindi fuori dalla città e dalle sue costruzioni, più vicini alla vitalità di una natura non ancora sottomessa alle costringenti fabbricazioni umane, ideali e concrete, c’è un vecchio vagone di un treno abbandonato, che Yori e Minato riempiono di giochi, piccoli oggetti per loro significativi, e di cibo.

Questo luogo protetto è il teatro di esperienze emozionanti che li avvicinano, in una confusione tra il sensoriale e il sessuale appunto, che li aiuta a stabilire un legame significativo e che appare rinsaldare le fondamenta del loro stesso esistere. Il vagone-treno è un altrove, un paradosso che evoca un viaggio, ma è immobile, sembra esistere nella realtà così come nella fantasia, quasi un portale verso il mondo emotivo, dove i due protagonisti possono finalmente esistere nella loro autenticità, con tutti gli aspetti più intricati e contraddittori della loro incipiente crescita. D’altra parte, la grande sfida di questa età è la tempesta sensoriale e sensuale che la caratterizza, e che riattiva le disposizioni polimorfe perverse infantili e che sono tipiche di confusioni bisessuali. Queste perversioni possono essere transitorie ma possono essere anche espressione di una difficoltà alla soggettivazione e al conseguimento dell’identità.

Questo luogo sarà come un oggetto transizionale, un paradosso, appunto, come descrive Winnicott, perché esso non appartiene né alla realtà interna né al mondo esterno, ed è stato nello stesso tempo creato e trovato dal bambino, (1968) o diventerà un rifugio, il luogo delle fantasticherie che li isola, una terra di mezzo da cui non sarà poi così facile uscire e potrebbe ostacolare il contatto con la realtà già così frustrante?

Riuscirà questo ambiente, fuori, lontano dalla scuola, dalle strade, nei tunnel franati sulle porte del tempo e della verità, a resistere alla costrizione del contesto che lo circonda, alle sue dissociazioni? Chi sarà il mostro? Il mostro, con il cervello di un maiale, non esiste, è una fantasia? o siamo tutti il mostro? Il finale del film resta enigmatico.

Ci viene in mente un evocativo passaggio del lavoro di Winnicott sull’aggressività, che vorremmo citare per intero, come introduzione a questa nostra breve riflessione.

“L’idea principale di questo studio dell’aggressività è che, se la società è in pericolo, non è tanto a causa del comportamento aggressivo dell’uomo, quanto a causa della rimozione dell’aggressività che avviene nell’individuo. Uno studio della psicologia dell’aggressività esige dallo studente un notevole sforzo, per la ragione seguente: in una psicologia globale, essere derubato è uguale a rubare, ed è altrettanto aggressivo. Essere debole è altrettanto aggressivo dell’attacco del forte nei confronti del debole. Omicidio e suicidio sono fondamentalmente la stessa cosa. E forse, ciò che è soprattutto difficile da concepire, il possesso è altrettanto aggressivo dell’acquisizione avida. Acquisizione e possesso formano in verità un’unità psicologica, essendo l’una incompleta senza l’altra. Non intendo dire con ciò che acquisizione e possesso siano buoni o cattivi. Queste considerazioni sono importanti perché attirano l’attenzione sulle dissociazioni che si nascondono nel contesto sociale corrente; uno studio dell’aggressività non può ignorarle” (1950, pag. 246).

Queste parole, solo apparentemente misteriose, ci fanno prendere contatto con gli aspetti dissociati presenti nel film, ossia con la mostruosità e con l’innocenza dei suoi protagonisti, così come è accaduto, casualmente (?) nello scambio che caratterizza la traduzione in italiano del titolo. Aspetti innocenti o aspetti mostruosi, malvagi e aggressivi compaiono come elementi distanti, divisi, eppure attribuibili allo stesso identico personaggio che abita la narrazione.

Cosa fa diventare mostruoso qualcosa che invece nasce da un aspetto spontaneo, potenzialmente evolutivo? Sono gli aspetti indefiniti, sconosciuti, l’alterità che non riusciamo a comprendere? Lo sguardo superficiale che sfocia nella facilità di giudizio? L’esonerarsi dal difficile lavoro di assunzione di responsabilità nel tollerare l’indefinito? O ancora, la necessità di dare un’etichetta sociale ad un aspetto istintuale e vivo?

Freud, ne “Il disagio della civiltà” (1930), indica come l’umanità sia disposta ad un compromesso tra la rinuncia all’espressione pulsionale diretta e il vivere all’interno di una comunità, che fornisce supporto e protezione. Nel film, l’autore sembra chiedersi: che prezzo ha questo compromesso, questo disagio, in un periodo delicato dello sviluppo come la preadolescenza?

Lo stigma sociale apre ad una serie tragica di bugie, incomprensioni e interpretazioni parziali che soffocano la spinta evolutiva, potenzialmente creativa e rivoluzionaria dei due giovani protagonisti, in un’età in cui tale spinta è caratteristica fondamentale.

Tornando alla riflessione iniziale, vorremmo sottolineare come nel nostro lavoro di psicoterapeuti con giovani adolescenti risulti sempre difficile identificarsi tout court con una visione specifica. Ad esempio, rispetto al lavoro con i genitori, la riflessione sul setting diventa centrale: quanto farli partecipare al lavoro terapeutico rappresenta un’invasione di campo e quanto invece una possibilità di integrazione dei punti di vista? Il funzionamento psicologico di certi meccanismi difensivi, che si caratterizzano per una divisione netta in parti contrapposte, ci sembrano infatti disfunzionali rispetto alla necessità di una comprensione profonda del paziente. La riflessione più intensa ed emozionante che ci ha lasciato questo film, tuttavia, è legata all’importanza che l’esperienza di un lavoro psicoanalitico in adolescenza può assumere, ossia come una possibilità di sostegno all’intensità di una spinta evolutiva unica nel corso della vita, ma per questo esposta a violenti attacchi. Chi aggredisce l’adolescenza? Ci siamo risposte: chi nel nuovo che accade, nel cambiamento che si realizza e nella diversità di chi si trasforma non coglie il potenziale, l’innocenza e l’autenticità, ma invece scova il mostro, “il mostro con il cervello di maiale”.

D’altra parte, a proposito del cervello dell’adolescente, sappiamo che si trasforma e costruisce sulla base delle stimolazioni ricevute, la più importante delle quali è l’evento della pubertà. Come dice Mark Solms (2018), l’ambiente in cui il cervello si trova in momenti critici determina quali connessioni verranno usate e quali no, e i primi tredici anni di vita dall’infanzia alla pubertà sono particolarmente sensibili agli influssi dell’ambiente.

Fa paura, a volte, o invidia, altre, il potente insorgere delle manifestazioni pulsionali sotto l’impulso dello sviluppo corporeo, sia nei termini dello sviluppo sessuale, ma anche e soprattutto, come sottolineava Winnicott, nella sua componente aggressiva. Aggressività intesa non come distruttività o violenza, ma come spinta vitale in funzione della trasformazione e della realizzazione del Sé, utile per i processi di separazione dal mondo infantile e dai genitori e risolutiva per i compiti evolutivi fase-specifici.

Tornando al film, per concludere, in Monster c’è la creazione di uno spazio, insieme realistico e immaginario, nel quale i giovani protagonisti possono abitare, quasi come se ci si trovasse all’improvviso in uno dei mondi animati/disegnati di Hayao Miyazaki, fuggendo verso una possibile nuova vita, che superi il peso delle parole, dei desideri, dei simboli, oltre ogni parziale punto di vista.

*Rubrica a cura di E. Fondi, M. Rossi (coordinatrici), L. Cocumelli, G. D’Amato, A. Gentile.