Recensioni*

De Rosa E. Il pianto di Edipo. Vicenza: Altro Mondo Editore, 2024. Pagine 124. Euro 14,00.

Definire Il pianto di Edipo di Emilia De Rosa un libro originale, oltreché assai sapiente, è davvero poco dire: a cominciare, forse, dal titolo, visto che gli eroi – nelle loro versioni consuetudinarie – raramente piangono. Tra i molteplici saggi dedicati all’umanissimo eroe tebano, questo piccolo ma prezioso volume si caratterizza, in modo esemplare, per il “come”: un “come” che – secondo l’adagio che la forma è anche sostanza – permea profondamente il contenuto del racconto.

Il libro – tanto per cominciare – è scritto in soggettiva, in “io”. È Edipo stesso che parla: un gesto niente affatto semplice, quando ben riuscito, poiché comporta, oltre alla sagacia di chi si muove con grande agio nella materia, anche la capacità di un intimo “farsi abitare”, di un “en-pathein” che richiede un “lavoro” di secondo grado e di diversa qualità rispetto al semplice raccontare, o al commentare dall’esterno.

L’Edipo di Emilia De Rosa è un Edipo carnale, finito, incerto, tormentato, preda di rapimenti passionali e di improvvise titubanze, fragile, che sconta sin da subito il doppio trauma di un abbandono primario e di una reiterata menzogna circa le proprie origini. Per un paradosso poetico, è un Edipo forte – forse – proprio della sua umana fragilità: forte del suo pianto, che sembra svelarsi come bruciante lato in ombra e come “secondo tempo” – gli occhi oramai orbi – di un non aver potuto, ma pure voluto, “vedere” e cogliere – lui pur così scaltro e ingegnoso con la mente – i molteplici indizi che, talvolta anche molto espliciti, gli si son fatti incontro circa la propria verità soggettiva ed esistenziale.

In secondo luogo – sempre a proposito del “come” – questo prezioso volumetto si avvale di un linguaggio intenzionalmente “sommesso”, che rifugge ogni gergo, tecnicismo e considerazione teorica esplicita, per “restituire voce” ad una sofferenza che è il costo dell’estenuata riconquista – tra mille ostacoli esterni come interni – di una possibile soggettivazione umana. Dote intrinseca di un simile linguaggio – mai del teorizzare, che pretende in sé astrazione – è il restare aderente all’experiencing soggettivo, in ciò funzionando come una sorta di “cassa armonica” capace di far risuonare simultaneamente i molteplici livelli e le molteplici “età” di una vicenda umana. Arduo, infatti, sostenere che Il pianto di Edipo sia un libro “di” psicoanalisi, o “sulla” psicoanalisi: arduo del pari sostenere che non lo sia. Suo originalissimo pregio sembra proprio – semmai – l’essere profondamente “intessuto” di sapienza clinica e psicoanalitica senza in alcun modo dichiararle.

Il libro si apre con una prolessi – un flashforward – inattesa e folgorante: Edipo è oramai vecchio e cieco, indigente, prossimo alla morte. Ed erra vagabondo, come a realizzare, adesso nel concreto, l’atopìa e la sradicatezza esistenziali – è stato “fuori posto” ovunque, nei luoghi come nelle generazioni – che ne hanno segnato tragicamente l’esistere. Le spalle voltate al breve futuro che gli resta, rivive nel modo quasi sensoriale dei ciechi (qui la scrittura dell’autrice è abilissima) il filo frusto della sua vita, alla tardiva ricerca di un senso soggettivo d’integrazione che mai ha potuto raggiungere.

La cecità verso l’esterno e la titubanza del brancolare diventano per lui, per umanissima antinomia, l’opportunità di sostare in una diversa e più acuta “visione” e in un diverso e più complesso tempo, che è il tempo dell’après coup. Accanto a lui – mediatrice tra buio e luce – la silenziosa Antigone, la figlia-sorella che lo sorregge e ne accoglie il dolore: e che, tra i molteplici piani metaforici che s’intersecano in questo bel libro, sembra giocare il ruolo tardivo, discretissimo ma vitale, di quell’ “Altro indispensabile” che lo scaltro eroe non ha potuto avere in origine.

Da questa posizione atopica, Edipo comincia a porsi interrogativi sul significato del proprio esistere e dell’umano esistere più in generale. Si tratta di questioni – per menzionarne soltanto alcune – sulla hybris; sul transgenerazionale e sul destino; sulla possibile efferatezza del narcisismo genitoriale; sullo scambio di sguardi tra madre e neonato; sulle conseguenze di una relazione materna impregnata di ambiguità e di seduzione; sulla morte e su ciò che potrebbe continuare a restare in vita dell’umano.

Questi interrogativi di Edipo non hanno più nulla a che vedere, tuttavia, con esercizi della mente, ma con “verità” soggettive e umane: tant’è che le “risposte” che andrà formulando nel tempo esitano tutte sulla soglia di un “forse”, o persino “indietreggiano” su un più patito “com’è possibile che…?” Più semplicemente, egli vuole “sapere”, “comprendere” e “mettere insieme” ciò che delle proprie origini e della propria verità soggettiva gli è stato negato, in modo da potere, in primo luogo, finalmente “collocarsi”, e in secondo luogo raccontarsi e testimoniare, condividere, tramandare la sua “personale sofferta esperienza” (p. 22).

A questo fine, anche il prezioso sostegno di Antigone – figlia della sua stessa genìa – non è più bastevole per lui. Circondato da menzogne e dissimulazioni, egli ha comunque bisogno di un “diverso Altro”: questa volta, del “testimone che ricorda e che racconta” (p. 66), nel giusto momento in cui ruvidissime verità possono infine essere tollerate.

Figura splendente dell’intero libro - vero “tu” differenziante e personalizzante - questi è il pastore di Tebe che, con l’atroce mandato di portare Edipo a morte non appena partorito, lo ha, in realtà, segretamente salvato. È della stirpe dei servi: conosce dunque perfettamente che cosa significhi la hybris dei regnanti.

Col presto apparire sulla scena del pastore, che Edipo attivamente ricerca, sembra pure verificarsi una commovente “diffrazione” dello stesso titolo del libro di De Rosa: nel ricordo-testimonianza che egli offre a Edipo, sembra – infatti – esser stato proprio il pianto inascoltato di lui-neonato a rendere emotivamente insostenibile per il pastore il compito di portarlo a morte. Il pastore ha dunque “risposto” al pianto di un bimbo appena nato, così trasformandolo in umano richiamo e in interlocuzione: in richiesta di vita.

Accanto ad Antigone, ma in modo assai differente rispetto a lei, nel libro egli presto assume la funzione di sostegno indispensabile del tardivo viaggio di Edipo alla ricerca del proprio essere e delle proprie origini. Significativamente nel contesto di un incesto già avvenuto, si tratta – tuttavia – di una funzione, non tanto di “padre edipico” e “separativo”, quanto piuttosto di “padre primario”: quel padre che, per Winnicott (1969), costituisce, per il neonato, il primo “modello per la propria integrazione” (p. 264).

Grazie al pastore di Tebe e alla sofferta riconquista delle proprie radici, Edipo sembra pure potersi riappropriare, sia di una “anti-eroica” fragilità, sia anche della responsabilità soggettiva, prima rigettata in una difensiva passivizzazione che ogni disgrazia attribuiva all’ananke o al volere degli dèi.

Chiude il libro uno splendido monologo di Antigone. Quasi a raccogliere e spingere oltre il percorso del padre e la sua eredità morale, ella sembra voler chiudere e ricucire il “cerchio dei nessi spezzati”, valorizzando l’umana compassione come unica arma da opporre alla hybris, e accomunando – in una sorta di invettiva liberatoria – gli stessi dèi (realmente antropomorfi nella cultura greca) ai lati peggiori degli esseri umani.

“Sono l’arroganza, la brama di potere e l’odio che disumanizzano, mentre l’amore e il rispetto per i nostri simili fanno crescere. […] Non amo le grandi e immortali divinità dell’Olimpo arroganti e forse cariche di passioni malsane e di odio, come mio zio Creonte” (p. 118).

Susanna Guida

Bibliografia

Winnicott D W (1969). L’uso di un oggetto nel contesto de ‘L’uomo Mosè e la religione monoteistica’. In: Esplorazioni psicoanalitiche. Milano: Cortina, 1995.

*Rubrica a cura di C. Candelori (coordinatrice) e C. Trumello.