Quando l’analisi prende corpo.
Il controtransfert somatico
e il processo terapeutico
salvatore martini



Introduzione

Nella mia pratica clinica mi è capitato spesso di sperimentare sensazioni somatiche sgradevoli, forti tensioni muscolari, imbarazzanti impellenze fisiche. Sottoposto a pressioni inconsce derivanti dai massicci meccanismi di difesa messi in atto da alcuni pazienti, ho avuto modo di confrontarmi con la complessa dimensione della participation mystique (Jung, 1921, p. 258) osservandone la multiforme natura nelle differenti fasi del processo terapeutico. Ritengo sia possibile ipotizzare che l’arcaico meccanismo di difesa dell’identificazione proiettiva (Klein, 1946, p. 417), che Rosmary Gordon equipara a ciò che Jung ha chiamato identità inconscia, infezione psichica e participation mystique (Gordon, 1965, p. 128), sollecitando reazioni somatiche, comunichi informazioni sulla precocità e profondità del danno psichico, nonché una serie di indicazioni che potrebbero essere considerate, dal punto di vista simbolico, come localizzazioni somatiche di problematiche psichiche legate al disagio del paziente.
Credo inoltre che una simile dimensione comunicativa, all’interno della quale il corpo diviene “intermediario nell’incontro” (Callieri, 2007, p. 152), possa favorire lo sviluppo di una comunicazione profonda, concedendo a paziente e terapeuta l’opportunità di sperimentare l’interazione analitica come luogo di attivazione di energie archetipiche. Questo mio lavoro si propone dunque di approfondire il fenomeno del controtransfert somatico inteso come strumento d’indagine analitica in grado di introdurre progressivamente nel dialogo tra terapeuta e paziente differenti dimensioni psichiche e molteplici livelli comunicativi.


Il controtransfert somatico come “organo di informazione”

Partirei dall’ipotesi dunque che l’esperienza diretta di aspetti controtranferali somatici nel terapeuta possa corrispondere ad una speculare mancanza da parte della coscienza del paziente di una capacità di ospitare elementi affettivi non elaborati, nonché al risultato di un “contagio” relativo alle sue stesse operazioni difensive. Tale contagio costituisce, dal mio punto di vista, una importante declinazione somatica di quella “infezione psichica” (Jung, 1946, p. 188) o di “influenza quasi chimica” (Jung, 1929, p. 80) di cui parlava Jung illustrando le dinamiche transferali e controtransferali nel suo saggio del 1929 sulla traslazione. Jung infatti, descrivendo l’incontro tra due personalità come la “mescolanza di due diverse sostanze chimiche”, definisce la disposizione ad essere influenzati dal paziente come un indispensabile “organo di conoscenza” (ibid., p. 80) di cui disporre nel rapporto terapeutico.
Allo stesso modo, in questa occasione, propongo che possano essere proprio gli organi somatici a produrre effetti “di natura assai sottile” (ibid., p. 80) sull’analista e che tali effetti possano veicolare profonde comunicazioni sugli stati scissi del paziente. Mi chiedo, inoltre, se l’utilizzo del sostantivo organo e dell’aggettivo sottile utilizzati da Jung nel saggio del 1929 non si riferiscano, preannunciandole, alle concezioni successive che egli stesso espresse nel saminario su Zarathustra del 6 marzo 1935 in merito alla presenza di un “corpo sottile” (Jung, 1989, p. 460) tra paziente e analista capace di veicolare comunicazioni profonde all’interno della coppia analitica.
Potremmo forse considerare i nostri organi fisici e le trasformazioni chimiche che in essi avvengono come veicoli di conoscenza del mondo interiore, capaci di accompagnare l’analista a percepire se stesso in connessione con il mondo interno del paziente e con la nascente relazione analitica. Nel seminario sui sogni del 14 novembre 1928 Jung afferma: “I contenuti dell’inconscio nevrotico sono corpi estranei, non assimilati, artificialmente scissi” (Jung, 1930, p. 66). Nella terza conferenza alla Tavistock clinic di Londra, tenuta il 30 settembre 1935, Jung sostiene: “È come se quel particolare complesso avesse un proprio corpo (…) come se (…) fosse localizzato nel mio corpo” (Jung, 1935, p. 84) e avesse “una certa quantità di fisiologia propria” in grado di “disturbare lo stomaco, alterare la respirazione, disturbare il cuore.” (ibid., p. 85) Durante la quinta conferenza del 4 ottobre 1934 alla Tavistock Clinic, Jung riprende l’argomento in precedenza trattato aggiungendo che: “Le emozioni sono contagiose, perché sono radicate in profondità nel sistema simpatico (...) ogni processo di natura emotiva evoca immediatamente processi analoghi negli altri” (Jung, 1935, p. 146). Sembrerebbe che, nel definire tale processo, Jung abbia posto le basi per poter interpretare la risposta somatica del terapeuta all’interazione analitica come la contro-reazione fisiologica al “corpo complessuale” del proprio paziente.
Anche Fordham, parlando del controtransfert sintonico, definisce l’inconscio dell’analista attraverso le locuzioni “organo di informazione” e “sistema percettivo” (Fordham, 1960, p. 290). Sebbene egli abbia espresso seri dubbi rispetto ad alcune modalità di utilizzo del controtranfert somatico in analisi (cf. Samuels, 1985 p. 53; Fordham, 1991), ritengo che la scelta di tali parole da parte di Fordham riesca a comunicare pienamente la valenze dialogica delle manifestazioni somatiche all’interno della relazione inconscia tra analista e paziente. Mi domando quindi se nella definizione di Fordham relativa alla percezione controtransferale dell’analista come organo di informazione non sia presente implicitamente la sostanziale impossibilità di scindere psiche e soma qualora ci si addentri analiticamente nelle profondità della psiche. Entreremmo così in quel territorio che Jung ha definito “psicoide”, un livello non rappresentabile dell’esistenza, dove predomina l’istinto (Jung, 1954, p. 202), in cui la dimensione psichica e quella somatica coesistono in una sostanziale unità.
Jung infatti, nelle sue “Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche”, concepisce proprio “una psiche che in qualche modo tocca la materia e viceversa una materia con una psiche latente” (ibid., pp. 250-251) in assonanza con la risposta che, pochi anni prima, egli stesso aveva dato a Bion nel corso dei seminari alla Tavistock: “I due fattori, quello psichico e quello organico, presentano una singolare contemporaneità (…) li vediamo separati per la nostra totale incapacità di pensarli contemporaneamente” (Jung, 1935, p. 78). Tale contemporaneità coincide con “la vera natura dell’archetipo” (Jung, 1954, p. 231) ovvero “un’unità psicosomatica che possiede due aspetti; uno legato strettamente agli organi fisici, l’altro a strutture psichiche inconsce e potenziali” (Fordham, 1969, p. 83).
Mara Sidoli sostiene che le esperienze emozionali precoci concorrano alla formazione delle immagini archetipiche, influenzando le modalità con cui la psiche e il corpo interagiranno (o non interagiranno) per l’intera esistenza dell’individuo. Potremmo forse ipotizzare che “un rapporto emotivamente disturbato o traumatico con la madre, che è stata incapace di mediare adeguatamente le violente evacuazioni affettive di natura archetipica dell’infante” (Sidoli, 2000, p. 183) possa determinare una stabile scissione corpo/mente che si ripercuoterà gravemente sulla possibilità dell’individuo di sperimentare nella propria esistenza una vitalizzante adesione al fondo archetipico collettivo. In un caso del genere le difese del Sé, nella visione della Sidoli, si strutturano attraverso un’espulsione di “contenuti affettivi primari non elaborati” che invadendo “la sfera somatica per vie misteriose, si disperdono nei meandri del corpo e producono improvvise reazioni fisiche, anziché trasformarsi in immagini o fantasie che potrebbero essere poi assimilate.” (Ibid., p. 182)
L’identificazione proiettiva, costituisce dunque un tentativo di espellere i contenuti affettivi dolorosi ma, come afferma Modell, “anche una forma di comunicazione (Modell, 1990, p. 64) (...) analoga alle difese fisiologiche del corpo” (ibid., p. 66). Tale processo rappresenta non solo una sorta di sistema di difesa appunto “fisiologico”, finalizzato all’evitamento del dolore psichico, ma costituisce anche un inconscio tentativo di indurre nell’analista la stessa sofferenza che il paziente patisce (Stone, 2006, p. 111). L’analista, lavorando sul proprio controtransfert somatico, ha il compito di tentare un’integrazione corpo-psiche là dove il paziente ha operato una scissione. L’analista deve quindi fare ricorso alla sua “facoltà di rêverie”, definita da Bion stesso come “l’organo recettore di questa massa di dati sensoriali” (Bion, 1962, p. 178). Il tentativo da parte dell’analista di riconnettere il proprio livello immaginativo con il dato esperito somaticamente ritengo favorisca nella coppia analitica una riunificazione delle polarità archetipiche di psiche e soma attivando, nel rapporto di transfert-controtransfert, energie funzionali allo sviluppo delle relazione e alla trasformazione individuale del paziente.
Tale modalità di lavoro riguarda, come sottolinea Schwartz-Salant, le dinamiche della coppia inconscia paziente-analista, dinamiche in grado di favorire lo sviluppo di un “campo interattivo” (Schwartz-Salant, 1989, p.191) capace di costituirsi come la “fonte creativa di un’interazione al di là dei poteri della personalità conscia.” (ibid., p. 189) Così, il lavoro di reintegrazione dei contenuti scissi e proiettati sull’analista, anche in termini di sensazioni e percezioni somatiche, non favorisce solamente la costituzione di un Io più integro attraverso l’assimilazione dei complessi personali, ma facilita nel tempo la percezione e lo sviluppo di un’area interattiva inconscia, per certi versi simile a quella che Ogden definisce “terzo analitico” (Ogden, 1997), che unisce paziente e analista in un’esperienza di recupero della tensione archetipica verso lo sviluppo del Sé.


I balbettii somatici e la dimensione del Sé

Le proiezioni, come sottolinea Jung nel seminario su Zarathustra del 6 marzo 1935, si manifestano in trasmissioni psichiche e fisiche da una persona all’altra attraverso “un’area intermedia tra analista e paziente” (Stone, 2006, p. 112). Si tratta di un’area transizionale, un mundus imaginalis (Corbin, 1972), tra il mondo spazio temporale e l’inconscio collettivo attraverso la quale gli inconsci di analista e paziente possono comunicare tra loro e con la dimensione archetipica del Sé. Jung, nel seminario su Zarathustra del 20 febbraio 1935, propone che la dimensione del Sé sia contemporaneamente somatica e psichica e che proprio il corpo incarnato ne rappresenti la manifestazione estroflessa (Jung, 1989, p. 430). Egli ipotizza persino una pulsione del Sé tesa ad incarnarsi nel corpo affermando che, qualora tale pulsione venga ostacolata per qualsivoglia motivo, il Sé tende a manifestarsi in maniera apparentemente disfunzionale attraverso sintomi psico-somatici (ibid., p. 431). Così i “balbettii del corpo” dell’analista di cui parla Schwartz-Salant (Schwartz-Salant, 1982, p. 224) ritengo possano essere intesi come una manifestazione controtransferale della pulsione del Sé del paziente ad incarnarsi nel corpo, avvertita dall’analista a causa della impossibilità da parte del paziente di percepire, sulla base della propria scissione, i livelli individuativi connessi alle manifestazioni somatiche individuali.
Nella conferenza del 6 marzo 1935 al Club analitico di Zurigo, Jung mise in rilievo come Nietzsche avesse compreso quanto “la psiche possa generare effetti reali” venendo in contatto con la “straordinaria efficacia del Sé (…) per mezzo di quel qualcosa che viene chiamato corpo sottile” (Jung, 1989, p. 461). Il corpo sottile, come Jung afferma nel seminario sui sogni del 13 febbraio 1929 “è la sede esplicita di ciò che l’antica filosofia avrebbe chiamato entelechia, ciò che tenta di realizzarsi nell’esistenza.” (Jung, 1930, p. 153).
Nei seminari su Zarathustra Jung propone che il collegamento tra coscienza e inconscio, in occasione del lavoro analitico, possa condurre a due diverse dimensioni relative alle polarità archetipiche di spirito e materia: una dimensione spirituale inerente l’inconscio psichico e una somatica, relativa a quello che egli definisce inconscio somatico. Nell’area di interazione inconscia tra paziente e analista si può dunque stabilire un contatto sia tra inconsci psichici che tra inconsci somatici. Le esperienze somatiche dell’analista allora ritengo possano rappresentare, alla luce di quanto detto, la conseguenza a livello controtransferale dell’incontro con l’inconscio somatico del paziente, così come le immagini e le emozioni percepite controtransferalmente dall’analista possono essere concepite come riverberi dovuti al contatto con l’inconscio psichico del paziente stesso.
Schwartz-Salant parla, in questo caso, di un contatto empatico di tipo dionisiaco che può facilitare l’accesso all’area psichica dell’inconscio somatico. Secondo Schwartz-Salant l’approccio dionisiaco da parte dell’analista può portare terapeuta e paziente verso un’interazione somato-psichica nella quale sono “le relazioni in sé (...) piuttosto che le cose in relazione ad essere il punto focale” (Schwartz-Salant, 1989, 190).
L’approccio somatico al rapporto analitico permette di non focalizzare l’attenzione esclusivamente sull’importanza del ritiro delle proiezioni, ma di concentrarsi anche sui processi che avvengono nella terza area. Attraverso questo orientamento analitico, Schwartz-Salant scrive, “due persone possono comprendere” in maniera profonda e senza necessariamente ricorrere ad interventi riduttivi, come anche Dieckmann mette in rilievo (Dieckman, 1974, p. 75) “una varietà di strutture di collegamento, in particolare la fusione, la distanza e l’unione”. (Schwartz-Salant, 1989, p. 191).


Differenti fasi del processo di comunicazione somatica

Ritengo che il meccanismo che potremmo chiamare di ‘identificazione proiettiva somatica’ possa presentarsi in seduta sotto diversi aspetti, ognuno dei quali presente in maniera preponderante rispetto all’altro in relazione alla fase di sviluppo del processo terapeutico e alle conseguente possibilità della coppia analitica di accedere progressivamente alla percezione di una coppia inconscia sullo sfondo della relazione analitica: come impedimento alla capacità immaginativa dell’analista e attacco al legame (Bion, 1959); come comunicazione, attraverso il corpo sottile, di aspetti complessuali scissi del paziente; come meccanismo, a livello archetipico, che “ha come suo obiettivo la trasformazione della struttura e delle dinamiche di questa terza area” (Schwartz-Salant, 1989, p.178). Tali differenti declinazioni del controtransfert somatico credo possano presentarsi nella stanza d’analisi non solamente in maniera lineare e progressiva, ma anche con modalità oscillatorie derivanti dalla difficoltà da parte del paziente e della coppia analitica nel tollerare sia il dolore psichico che la vicinanza intima all’altro.
Nel tentativo di illustrare i differenti aspetti del ‘processo di comunicazione somatica’ descriverò ora il caso di un diciannovenne, figlio udente di genitori sordi, con serie difficoltà a negoziare l’adolescenza. All’inizio dell’analisi E. soffre di intensi attacchi d’ansia e severi disturbi intestinali che si verificano in occasione di qualisiasi tipo di interazione sociale con ragazze della sua stessa età. Dopo una prima fase di consultazione decidiamo di incontrarci due volte alla settimana. L’analisi ha avuto una durata di sei anni.


La Nigredo

In prima istanza, l’identificazione proiettiva porta l’analista in quel territorio oscuro ed indifferenziato che Jung ha accostato al processo alchemico della Nigredo. Scrive Jung: “Egli (il terapeuta) viene contagiato e, proprio come il paziente, fa molta fatica a differenziarsi da ciò che lo possiede. (…) L’inconscio attivato appare come un miscuglio di contrari scatenati.” (Jung, 1946, p. 193)
Emanuele è un ragazzo magro, di statura medio-bassa, il cui sorriso mi sorprende fin da subito per un contrasto evidente con uno sguardo spaesato e triste. Quando E. mi porge la mano nel presentarsi, ho istantaneamente l’impressione di entrare in contatto con un corpo piccolo, fragile e privo di forza. Durante il primo colloquio, E. mi racconta di aver chiesto un aiuto psicologico dopo essersi spaventato per aver passato quasi un’intera notte insonne, infastidito dal “rumore del silenzio”. Nel suo racconto questo rumore diventa il fulcro del disagio, un suono assordante e continuo che non concede tregua e che non permette di pensare ad altro.
Nella prima parte dell’incontro mi scoprirò più volte impegnato a tentare di distogliere E. da questo argomento, ripetuto ossessivamente, nella speranza di ottenere da lui qualche notizia biografica. Il tentativo da parte mia di indirizzare il colloquio, legittimato solo in parte da un interesse verso una ricostruzione anamnestica, nascondeva con tutta probabilità la mia difficoltà nel tollerare il disagio che E. mi stava procurando e che solo alla fine della seduta avevo avuto modo di percepire con chiarezza. È stata infatti una forte nausea avvertita oltre l’orario della seduta a permettermi di cogliere la complessità dell’incontro appena avvenuto e a consentirmi di ricostruire a posteriori il mio vissuto controtransferale.
Nel corso dei tre successivi colloqui esplorativi il tipo di malessere che avevo avvertito alla fine del primo incontro si è poi presentato in maniera progressivamente più acuta. Sebbene di primo acchito E. mi avesse dato l’impressione di un ragazzo indifeso da sostenere e da aiutare, cominciavo ora a percepire, alla luce di quanto stava accadendo, la complessità che la coppia analitica avrebbe probabilmente dovuto fronteggiare nell’avvicinare contenuti di difficile rappresentazione. Posso oggi tentare di trasferire sul piano sia intrapsichico che della relazione analitica l’impressione che l’aspetto estetico del ragazzo aveva suscitato in me fin dal primo momento: il contrasto tra uno sguardo triste e spaesato ed un sorriso smagliante ma freddo sembra poter mettere in evidenza come il dolore profondo del paziente non potesse essere espresso, celato a fatica da una facciata di serena cordialità e di buona disposizione all’incontro.
Durante i primi colloqui di consultazione sono stato spiazzato, infatti, proprio dal continuo contrasto tra la facilità di accordo durante la definizione delle regole di setting e la tendenza da parte del paziente a compiere quello che solo oggi riesco a pensare come un sabotaggio a fini difensivi della possibilità di lavoro terapeutico. Il suo incessante parlare ed il tono monocorde della sua voce generavano in me un senso di stordimento, producendo nella mia mente una sorta di ‘rumore psichico’ che mi allontanava dalla possibilità di una lettura simbolica. Allo stesso modo, la tendenza a descrivere nei minimi dettagli ogni singolo particolare del suo vivere quotidiano e la grande quantità di sogni raccontati in seduta sembravano essere modalità di controllo finalizzate a saturare il colloquio e a porre le distanze dalla relazione terapeutica.
Se da una parte posso pensare che il comportamento di E. durante i colloqui esplorativi fosse volto ad impedire un incontro autentico e proficuo sul piano della relazione analitica, dall’altra ritengo che la sensazione di nausea da me provata possa essere stata il risultato di un intenso vissuto controtransferale, esito di un processo di identificazione poiettiva dalla forte portata comunicativa.
La nausea, avvertita così intensamente nei quattro colloqui esplorativi, potrebbe dunque avermi messo nella condizione di percepire l’esistenza di un complesso fortemente scisso che si comporta come “una sorta di corpo” con “una propria fisiologia”, capace di “sconvolgere lo stomaco” (Jung, 1935, p. 84). Se infatti l’atto del mangiare, come afferma Jung durante il seminario sui sogni del 14 novembre 1928 (Jung, 1930, p. 66), è simbolicamente connesso all’assimilazione dei complessi, il mio vissuto corporeo controtransferale potrebbe aver rappresentato l’espressione della incapacità da parte di E. di integrare a livello conscio contenuti affettivi avvertiti dalla coscienza come particolarmente ‘imbarazzanti’ e destabilizzanti. Mi trovavo dunque davanti ad un paziente che mostrava, attraverso le sue resistenze, una forte reticenza ad entrare nel processo terapeutico e che dall’altra, attraverso le sue comunicazioni inconsce per identificazione proiettiva, chiamava me ad un forte, quanto oscuro e destabilizzante, coinvolgimento sul piano della relazione terapeutica inconscia. Scrive Jung: “Questo intreccio paradossale di positivo e negativo, di fiducia e di timore, di speranza e di sfiducia, di propensione e resistenza è caratteristico del rapporto iniziale”. (Jung, 1946, p. 193).


L’inizio dell’Opus

La possibilità stessa che l’analista si accorga di essere entrato nella dinamica psichica della Nigredo permette il distanziamento dalle proiezioni del paziente e l’inizio del processo terapeutico. Proprio la possibilità di vivere questo stato di indifferenziazione porta all’attivazione di un primo contatto percepito inconsciamente dal paziente come salvifico. Questa fase della relazione terapeutica può aprire progressivamente la strada alla fase in cui l’identificazione proiettiva si costituisce come meccanismo atto a favorire, attraverso l’incarnazione sul corpo dell’analista di sintomatologie somatiche pregne di significato in relazione ai complessi scissi del paziente, una lavoro analitico volto alla presa di coscienza da parte del paziente delle proprie operazioni di difensive. L’analista comincerà in queste occasioni a sperimentare un tipo di conoscenza induttiva in grado di metterlo in comunicazione con l’angoscia profonda dell’analizzando e segnalarne con forza le operazioni di scissione. Proprio tali forme di dissociazione credo debbano essere rispettate e tutelate dall’analista poiché funzionali all’ integrità dell’Io paziente, nonché alla sopravvivenza della relazione analitica stessa (Connolly, 2013, p. 650).
Dieci mesi dopo l’inizio dell’analisi E. racconta un sogno:

D: “Sotto terra c’è un giardino. C’è un cane sciolto. Mi avvicino e il cane abbaia. C’è una parete di vetro che ci divide. Lui abbaia se io mi avvicino troppo. Vuole mordermi. Sembra quasi voglia divorarmi”.

Qualche giorno dopo il racconto del sogno, mi viene in mente che l’immagine della lastra di vetro non sia solo una rappresentazione onirica della scissione operata da E., ma che essa possa anche descrivere efficacemente l’impossibilità del ragazzo, sperimentata nel rapporto con i genitori sordo-muti, di connettere il dato visivo a quello acustico-vocale. Questa riflessione mi porta così ad ipotizzare che E. non abbia potuto fare esperienza di una relazione primaria attraverso la quale imparare a processare congiuntamente le informazioni visive e quelle uditive in rapporto all’espressione emotiva. Tale condizione potrebbe aver contribuito alla formazione di una scissione mente/corpo e alla impossibilità di comprendere ed elaborare in maniera coerente gli eventi della sua vita e le emozioni ad essi associate. Dopo avermi raccontato il suo sogno, E. non fa alcuna considerazione in merito né alcun commento al suo raccontato. Dal canto mio, mi accorgo invece di come le immagini del sogno siano altamente rappresentative della costellazione emotiva probabilmente esperita dal paziente nella seduta precedente. Ritengo che in quell’occasione il paziente, attraverso una mia interpretazione, si fosse trovato a sperimentare una vicinanza con le proprie sensazioni di fastidio e i propri sentimenti aggressivi nei confronti del padre, accompagnati da una invidia nei miei confronti per la mia capacità di cogliere i vissuti inconsci in atto in quel momento. Tali emozioni dolorose che cominciavano ad emergere alla coscienza di E. sono state centrali per sviluppo del processo terapeutico, nonostante sia stato possibile metterle maggiormente a fuoco solo successivamente grazie ad un altro sogno all’interno del quale il tema del cane è tornato in maniera indiretta e non immediatamente comprensibile.
Due anni più tardi, infatti, nella seduta prima della pausa natalizia, E. propone la seguente osservazione: “Non sogno più come un po’ di tempo fa. Tutto quello che ricordo del sogno della scorsa notte è che sto mangiando un hot-dog.”
La minor quantità di sogni raccontati in seduta corrisponde a mio avviso ad una maggiore pregnanza di significato dei sogni stessi, come risultato di un allentamento delle difese ed una conseguente maggiore disponibilità allo sviluppo del processo terapeutico.
Dopo avermi parlato della sua passione per gli hot-dog, E. mi racconta di come una volta ne abbia mangiati troppi fino a farne indigestione e ad avvertire un’intensa nausea. Mi accorgo da subito dell’importanza di questa comunicazione sentendo fortemente il legame con la nausea esperita durante i primi colloqui. Dopo avermi raccontato della sua indigestione di hot-dog, E. si addentra in un racconto dettagliato dai toni spenti che mi procura una improvvisa sonnolenza. Per qualche minuto, dunque, mi perdo senza accorgermene in fantasie di vario genere. Comincio così a ricordare un afoso pomeriggio di agosto che tempo addietro passai a Central Park mangiando succulenti hot-dog. Improvvisamente mi rendo conto di aver visualizzato mentalmente l’immagine di un pene di cane. La forza dell’immagine mi risveglia dal torpore. L’importanza della parola “hotdog” diviene chiara alla mia mente non appena traduco letteralmente questo termine dalla lingua inglese a quella italiana. L’espressione “cane caldo”, associata all’immagine di una salsiccia rosa, mi porta a pensare, infatti, ad un cane in stato di eccitazione. Mi torna subito alla mente il sogno del cane che abbaia dietro ad una lastra di vetro che E. mi aveva raccontato più di due anni prima.
Appena la mia attenzione torna alle parole del paziente, mi rendo contro che E. sta parlando di un viaggio a New York compiuto qualche anno prima. Decido di intervenire:

Io: “Si ricorda quella volta in cui ha sognato un cane arrabbiato? Questa volta ha sognato un “hot-dog”, un cane caldo”.
Il paziente sorride.
E: “È vero, chissà perché si chiama così… cane caldo… L’altra volta nel sogno era un cane arrabbiato”.
Io: “Era arrabbiato perché lei gli si era avvicinato troppo”.
E: “Era proprio furioso”.
Io: “Le capita mai di essere arrabbiato perché qualcuno le si avvicina troppo?”
Il paziente rimane in silenzio per qualche minuto, poi comincia a parlare lentamente.
E: “Mio padre mi si avvicina troppo. Entra in camera senza bussare, invade i miei spazi. (Silenzio prolungato). Mia madre è fredda e distante, mio padre mi abbraccia e mi bacia persino troppo. Quando ero piccolo pensavo addirittura fosse gay. (Lunga pausa) Una volta, non so quanti anni avessi … ma mi sembra che sia il mio primo ricordo … quindi ero piccolo … ero sdraiato sul letto ed ero nudo. Mamma mi stava cambiando. Insomma, papà mi ha fatto vedere come fare a toccarmi. Mi parlava con il linguaggio dei segni e faceva su e giù con la sua mano davanti ai miei occhi per indicare come io dovessi fare. Ma io non capivo, tuttora non sono sicuro di cosa mi volesse dire. Forse voleva solo farmi vedere come dovevo pulirmi. Allora mi sembrò che lui mi volesse far vedere come masturbarmi, così io cominciai a pensare che fosse gay”.

Credo che, in questa seduta, la mia sonnolenza improvvisa possa essere pensata non solo come una risposta controtransferale “generata dal rifiuto del paziente di stabilire una relazione con me e con i suoi oggetti genitoriali interni” (Lambert, 1972, p. 368) ma anche come una nuova possibilità che la coppia analitica stava venendo a maturare attraverso il progredire del processo terapeutico. Il mio sonno credo possa essere considerato infatti come una difesa “nei confronti dell’emergere di qualcosa di eccessivo” (Devescovi, 2009, p. 60) sengalando dunque l’approssimarsi di una nuova possibilità comunicativa tra me ed il paziente. Questo è “l’effetto positivo” che “la sonnolenza può avere” in seduta (Field, 1989, p. 513). Secondo Nathan Field, infatti, il sonno è in grado di attivare quella “intimità condivisa” del “dormire insieme” che potrebbe non essere stata vissuta nel “rapporto madre-bambino” durante l’infanzia del paziente. Questo scambio significativo rivela come il sistema difensivo di E. si sia formato in risposta al comportamento intrusivo del padre e al modo di rapportarsi freddo e distaccato della madre. Credo che tali circostanze abbiano generato nel paziente un profondo “senso di morte” (Connolly, 2013, p. 646) che ha determinato una forte scissione difensiva mente/corpo e un conseguente distacco dalla vitalizzante matrice archetipica della psiche. I miei “sentimenti di noia e le sensazioni di sonnolenza” (ibid., 646) stavano forse mettendomi in contatto con le esperienze di sofferenza infantile del paziente.  
La mancanza di parola nella relazione con il padre potrebbe, inoltre, aver impedito alla coppia padre-figlio una comunicazione efficace, come proposto in precedenza a proposito dell’immagine onirica della lastra di vetro, favorendo una interpretazione degli eventi da parte di E. basata più su fantasie inconsce che sulle dinamiche relazionali effettivamente in atto. L’immagine del cane arrabbiato, apparsa nel primo sogno, era scaturita probabilmente come risposta ad un maggior avvicinamento tra me e il paziente durante i primi 10 mesi di analisi. Una volta apparsami l’immagine mentale dell’ hot-dog e dopo aver tradotto il termine dall’inglese all’italiano è stato possibile per me accorgermi subito del legame con il sogno precedente. Se da una parte le modalità intrusive del padre durante l’infanzia di E. possano aver determinato una intensa rabbia, dall’altra esse potrebbero aver favorito fantasie inconsce di tipo erotizzato solitamente dirette verso la figura materna. La nausea causata dall’indigestione di hot-dog potrebbe essere messa quindi in relazione ad una incapacità da parte del sistema psichico di E. di contenere ed elaborare l’evento accaduto durante l’infanzia e la conseguente eccitazione somatica da esso prodotta. Allo stesso modo la mia nausea controtransferale potrebbe aver avuto una corrispondenza con il rifiuto/disgusto da parte della coscienza di E. che fantasie omosessuali potessero irrompere nel rapporto terapeutico dirigendosi verso la figura del padre/terapeuta (come poi accadrà a distanza di un paio di anni dall’inizio dell’analisi, come racconterò poi in un paragrafo successivo).


Gli inganni di Ermes

L’integrazione delle proiezioni del paziente, grazie al lavoro sul controtransfert somatico dell’analista, sarebbe quindi funzionale allo sviluppo di una capacità della coppia terapeutica di accedere insieme, nel dispiegarsi progressivo della relazione analitica, ad un campo di interazione inconscio psiche/soma in grado di attivare energie archetipiche trasformative. Spesso, a mio avviso, i momenti di percezione del proprio controtransfert somatico costituiscono prodromi significativi di esperienze psichiche profonde, che la coppia analitica avrà modo di sperimentare in seguito.
Appare dunque indispensabile tenere in ampia considerazione i messaggi emergenti dal soma cercando di considerarli come la risultante dei movimenti imprevedibili di Ermes (Lopez- Pedraza, 1977) nel gioco di rimandi consci ed inconsci tra analista e paziente, nonché come il punto cardine attraverso il quale aprirsi ad un nuovo atteggiamento della coscienza. Lopez-Pedraza, infatti, definisce le percezioni somatiche dell’analista dei “presagi” in grado di “stabilire un collegamento ermetico tra la situazione psicologica di cui si sta parlando e il corpo” (Lopez-Pedraza, 1977, p. 65).
Se Ermes era il Dio delle pietre poste come segnali lungo le strade (ibid., pp. 16-17), così i sintomi fisici dell’analista possono marcare importanti momenti del rapporto analitico, rappresentando prodromi di futuri “momenti d’incontro” (Stern et al., 1998, p. 913) tra paziente e analista.
Questi ultimi vengono definiti da Jan Wiener “esperienze inconsce intersoggettive” (Wiener, 2004, p. 174) in grado di facilitare il cambiamento in analisi in misura uguale, se non superiore, alle interpretazioni stesse. Così il modo di sentire terapeuta, “sia con il corpo che con la mente” può facilitare la percezione dei movimenti inconsci sia propri che del paziente aiutando la coppia analitica ad accogliere la “natura interattiva del rapporto analitico, dove il Sé del paziente e quello dell’analista si influenzano l’un l’altro consciamente ed inconsciamente.” (ibid., p. 182)
Per Jung l’essere umano è naturalmente spinto verso tale intensa connessione intrapsichica ed interpersonale dal “fattore istintivo” della “libido parentale” (Jung, 1946, p. 241). Scrive infatti Jung: “Questo è il nocciolo, che va sempre tenuto presente, del fenomeno della traslazione, perché il rapporto col Sé è al tempo stesso il rapporto con gli uomini” (ibid., p. 241). La sollecitazione psichica creata da una vibrazione somatica si costituisce a mio avviso dunque come primo movimento di risveglio della libido parentale (ibid., p. 241) stimolata dal recupero di “settori scissi, schizoidi, della psiche, settori in cui sono racchiuse, insieme ad un’intensa frustrazione e disperazione, (…) energie sessuali archetipiche o impersonali.” (Schwartz-Salant & Stein 1984, p. 17) Le reazioni somatiche dell’analista rappresentano infatti anche per Lopez-Pedraza “un altro modo di collegarsi alle divinità parentali” (Lopez-Pedraza, 1977, p. 70).


La coniunctio

La complessità del lavoro analitico in questa area psichica porta con sé la difficoltà, sia per il paziente che per l’analista, di dover transitare per una stimolazione somatica che può essere misconosciuta, rifiutata o, nella peggiore delle ipotesi, confusa con una sollecitazione somatica di tipo sessuale (Field, 1989, Connolly, 2013). L’analista, in questi casi, è chiamato ad una canalizzazione delle energie archetipiche attivate dal lavoro terapeutico diversa da quella presumibilmente inadeguata o carente messa in atto nel passato dalle figure genitoriali. Egli quindi dovrà accogliere i messaggi provenienti dal proprio corpo, o leggere quelli manifestati dal corpo del paziente, senza cadere in una controproducente unilateralità, rimanendo dunque “sulla borderline di Ermes dove, oltre all’aspetto fisico, organico, personale, la sessualità può essere considerata in termini di collegamenti archetipici impersonali” (Lopez-Pedraza, 1977, p. 31).  
L’insorgere di stimolazioni somatiche in seduta credo quindi vada letto su di un doppio registro: da una parte, tali sensazioni corporee potrebbero aver a che fare con la comparsa nel campo analitico della sessualità edipica e pre-edipica del paziente in relazione alla sua storia personale, dall’altra esse potrebbero rappresentare una via d’accesso privilegiata al contatto dionisiaco con energie archetipiche risvegliate dall’ingresso nell’inconscio somatico. Così le energie archetipiche liberate già a partire dai primi balbettii dell’analista, quasi come fossero le prime avvisaglie somatiche che nel bambino portano a stati di deintegrazione, necessitano di essere trasformate dalla rêverie dell’analista in esperienze sopportabili e dotate di senso.
Tali esperienze credo possano accompagnare il paziente a percepire un “coesistere nel mondo” (Callieri, 2007, p. 152) opposto alle esperienze alienanti di un rapporto con una madre “che ha fallito nell’attivare e rispecchiare la vitalità” del figlio e “la vitalità del suo corpo” (Connolly, 2013, p. 644). Una simile trasformazione del campo interattivo, precedentemente dominato dalla fusione o dalla scissione, può condurre a significative esperienze di “integrazione degli aspetti erotici e spirituali delle relazioni umane verso ciò che Jung definisce come coniunctio” (Field, 1989, p. 516).
“L’istinto e la sfera biologica si liberano dalla pressione dei contenuti inconsci” permettendo al paziente di accedere ad energie disseppellite sperimentando il desiderio de “l’unione a livello biologico” come “simbolo dell’unio oppositorum nel senso più alto” (Jung, 1946, p. 256).
Nella prima seduta di gennaio, a tre anni dall’inizio dell’analisi, E. mi confida la necessità di parlarmi di qualcosa che lo imbarazza fortemente. Istantaneamente provo una forte nausea che sembra riflettere l’imbarazzo provato dal paziente. Dopo qualche esitazione E. comincia a raccontare:
D: “Dopo l’ultima seduta di dicembre, quella prima delle vacanze di Natale, quando mi sono così tanto emozionato per le cose che avevamo detto, sono tornato a casa e mi sono messo su Internet. Mi sentivo eccitato ed ho guardato un video. C’era un tizio che entrava in uno studio. Nello studio c’era un’analista donna e i due cominciavano a fare sesso. (Silenzio) Ho fatto delle fantasie su di lei dottore. Io la possedevo”.

Le affermazioni del paziente mi scuotono profondamente. Solo dopo un po’ di tempo riesco ad accorgermi di quanta forza egli abbia dovuto utilizzare per confessarmi questa sua fantasia e di quanta fiducia possa egli aver riposto nel vas analitico per poter liberare in esso contenuti tanto dirompenti.
Nel riflettere ora su quanto accaduto, ritengo che aver tenuto fede a questa intuizione senza venir eccessivamente destabilizzato dal mio iniziale disorientamento, abbia permesso a me e a E. di non soccombere all’idea semplicistica e riduttiva della sua presunta omosessualità, ma di cogliere all’opposto i livelli profondi mossi dall’esperienza analitica. Le possibilità che E. ha concesso al processo analitico mi appaiono oggi particolarmente significative. Egli infatti ha permesso alla coppia analitica di poter cogliere come l’attivazione della libido parentale in occasione della intensa seduta del mese precedente, quella prima delle vacanze, avesse determinato in lui un coinvolgimento profondo nella relazione terapeutica stimolando a livello fisico un eccitazione sessuale difficile da elaborare. Durante la precedente seduta, E. aveva potuto accostarsi al doloroso vissuto di confusione ed eccitazione legato ad un antico ricordo relativo al padre sordomuto, vissuto come altamente intrusivo, che gli mostrava come lavarsi il pene. Ora E. cominciava a comprendere come le fantasie sessuali incestuose di allora avessero deviato l’interpretazione dei comportamenti e degli atteggiamenti del padre nei suoi confronti, alterando profondamente la percezione del rapporto padre/figlio, nonché l’interazione paziente/analista.
Ritengo che l’energia parentale incestuosa liberatasi in questa occasione abbia riattualizzato nel qui ed ora le “seduzioni precoci” (Schwartz-Salant, 1984, p. 28) del padre e il rifiuto da parte della madre della vitalità del corpo del figlio durante l’infanzia (Connolly, 2013, p. 641). Così, se agli inizi della terapia sono stato vissuto da E. come un padre che intrudeva fortemente attraverso le sue interpretazioni, successivamente, una volta allentate le sue forti difese, sono divento una madre/analista il cui assentarsi (per esempio in occasione delle vacanze natalizie), non potendo essere tollerato, dà vita a fantasie erotiche di incorporazione e possesso. Al rapporto analitico si sostituisce il rapporto anale e la sofferenza causata dalla separazione viene negata dalla fantasia onnipotente di “possedere” l’analista.
Dopo avermi raccontato le sue fantasie, E. rimane a lungo in silenzio cominciando solo successivamente, e con un po’ di timore, a spiegarmi in che maniera si manifestino le sue difficoltà con le ragazze. Descrive gli intensi dolori di pancia che prova in quelle occasioni e che lo costringono a fuggire in bagno. Mentre E. comincia a parlare, anche io avverto un crescente dolore alla pancia che mi procura brividi di freddo, sudorazione profusa e alcune dolorose fitte all’ano. Per un attimo penso all’ipotesi di dover sospendere la seduta per andare di corsa in bagno. Mi rendo però conto poco dopo di come questo mio forte malessere sia lo stesso che E. prova di fronte alle ragazze. L’analogia tra l’espressione “seduta analitica” e i sostantivi “seduta” ed “ano” formano nella mia mente una rete di sostegno che mi permettere di cogliere, sia pur a livello intuitivo, la necessità che io tolleri la mia dolorosa condizione fisica. Sento così quanto mantenere viva la mia capacità di contenimento senza cedere alla necessità evacuativa impellente, sia sul piano simbolico che concreto, possa favorire in questa occasione l’elaborazione cosciente da parte di E. di importanti contenuti affettivi. Intervengo con un filo di voce a causa del dolore:

“Immagino quanto sia doloroso”.
Pochi istanti dopo E. comincia a tremare e con la voce strozzata dal pianto dice:
“Penso di essermi sentito tanto solo quando ero bambino e anche adesso mi sento spesso solo. Mio padre così invadente, mia madre così fredda. Per questo quando sono spaventato, delle ragazze per esempio, mi chiudo in bagno. Così posso stare da solo. Mi rendo conto (E. comincia a piangere) che quando sono spaventato o sento dolore mi chiudo e non ci penso più, ma più non ci penso, meno mi sento in grado di affrontare la cosa. Guardi! Sto tremando!”

Appena E. termina di parlare, il mio dolore di pancia si attenua fino a scomparire. Un leggero brivido mi scorre lungo la schiena. Avverto così la fine dei sudori freddi e sperimento una gradevole sensazione di calore e di rilassamento. E. ha potuto abbandonarsi ad un pianto liberatorio e cogliere in seduta come i livelli affettivi mossi dalle esperienze infantili avessero condizionato la sua capacità di essere in relazione con gli altri e con se stesso. Il corpo di E. è diventato un veicolo di consapevolezza, non più un ostacolo da reprimere. Attraverso di esso egli ha potuto prendere coscienza nel qui ed ora della seduta dei suoi massicci meccanismi difensivi. Attraverso la forte sofferenza somatica provata, credo di aver potuto avvertire il dolore psichico del ragazzo giungendo ad una percezione profonda del suo disagio. Penso inoltre di esser stato chiamato da E., attraverso l’identificazione proiettiva, a coniugare la dimensione somatica con la dimensione affettiva al fine di ristabilire un contatto che ha contribuito a sanare la profonda scissione mente/corpo del ragazzo. Quest’ultima infatti potrebbe essere stata messa in atto nel corso dell’esistenza del paziente nel tentativo inconsapevole di evitare il dolore psichico per un rapporto con una madre incapace di relazionarsi “alla mente” del proprio figlio e alle sue emozioni (Knox, 2011, p. 132).
Secondo Mara Sidoli, l’onnipotenza come difesa dall’angoscia di separazione e tentativo di controllo dei processi di deintegrazione/reintroiezione esperiti come catastrofici, recede nel momento stesso in cui le immagini archetipiche “si incarnano nelle esperienze umane” fornendo all’individuo “un senso delle limitazioni reali”(Sidoli, 2000, p.74). Il mio dolore all’ano sembrava riprodurre sul corpo il dolore psichico del paziente per la separazione dall’analista, nonché il moto rabbioso conseguente al suo profondo vissuto abbandonico. Il controtransfet somatico è comparso in seduta, a mio avviso, per comunicare la presenza di affetti che la coscienza del paziente non era mai stata in grado di integrare. Tale processo mi ha quindi costretto ad una viva e dolorosa comprensione incarnata dell’angoscia di separazione del paziente che lo aveva mosso verso la difesa onnipotente e marcatamente aggressiva del possedere l’analista in sua assenza.
Ritengo che questo sia stato un momento cruciale per lo sviluppo della relazione analitica. In questa occasione infatti E. ha vissuto un’esperienza fondamentale che gli ha permesso di sentirsi capito ed accettato da un altro individuo. Una simile esperienza di coniunctio lo ha messo in contatto con una più profonda dimensione archetipica in grado di rivitalizzare le sue energie psichiche e riattivare il suo processo di individuazione. Da questo momento in poi, infatti, il ragazzo comincerà a sviluppare un senso di maggior adeguatezza generale e a mostrare, durante il percorso della sua analisi, capacità rilevanti di incidere sulla propria esistenza raggiungendo importanti traguardi sia in ambito privato, (si fidanzerà per la prima volta) che professionale (firmerà un solido contratto lavorativo). Potremmo forse dire che in questo caso l’interazione analitica, nelle sue valenze sia personali che archetipiche, ha mosso il paziente verso una possibilità evolutiva e non difensiva del possedere l’analista. Dalla fantasia onnipotente del possedere carnalmente, E. è potuto infatti passare, attraverso una comprensione incarnata da parte della coppia terapeutica, alla possibilità di possedere interiormente una funzione analitica in grado di promuovere e favorire il proprio personale processo individuativo.


Conclusioni

In questo lavoro ho tentato di individuare le caratteristiche principali del processo di comunicazione inconscia tra analista e paziente sul versante somatico. Ho esaminato l’ipotesi junghiana di un’area somato-psichica tra paziente e analista attraverso la quale transiterebbero comunicazioni profonde sia di tipo psichico che di tipo somatico. Ho proposto quindi che la percezione da parte dell’analista di reazioni corporee in seduta possa essere legata non solo alle operazioni difensive del paziente facenti capo a processi di scissione mente/corpo, ma anche ad un meccanismo potenzialmente terapeutico che chiamerebbe l’analista ad un lavoro sul proprio vissuto somatico in risposta alle stimolazioni prodotte dal contatto con i complessi scissi dell’analizzando. Questa ‘rêverie incarnata’ può condurre alla riunificazione delle polarità archetipiche di psiche e soma ed incoraggiare la coppia analitica ad entrare progressivamentre in processi di comunicazione inconsci di natura archetipica. Così il corpo, nelle sue valenze individuali, si costituisce come un contenitore/comunicatore di aspetti complessuali personali non integrati dalla coscienza del paziente mentre, nelle sue valenze collettive, esso rappresenta un’espressione somatica della spinta istintiva del Sé verso la trasformazione dell’individuo. L’interazione analitica nell’area archetipica della psiche collettiva permette alla coppia terapeutica di accedere a quella funzione auto-curativa della psiche di cui parlava Jung. Così paziente ed analista, transitando insieme per zone psichiche profonde, avrebbero la possibilità di entrare in contatto con le energie archetipiche giungendo a trasformazioni ed influenze reciproche non unicamente legate al comprendere e al discernere della coscienza.

Riassunto
In questo articolo viene descritto il passaggio di reazioni somatiche tra paziente e analista che dà origine al controtransfert somatico inteso come organo di comunicazione primitiva. L’analista viene direttamente chiamato, attraverso processi di identificazione proiettiva, a fare esperienza egli stesso dei disturbi somatici provocati dai complessi scissi dell’analizzando. Il tentativo dell’analista volto ad un’integrazione mente/corpo può accompagnare il paziente verso una progressiva comprensione ed accettazione della propria sofferenza interiore.
Tali esperienze di contagio psichico tra paziente e analista vengono messe in relazione alla psicologia del transfert di Jung e al concetto di ‘corpo sottile’ come area inconscia condivisa. La risignificazione di esperienze psichiche preverbali attraverso una ‘rêverie somatica’ dell’analista consente alla coppia terapeutica di entrare in contatto con le energie archetipiche e con il potere strutturante dell’inconscio collettivo. Viene presentato un caso clinico dettagliato che dimostra come il recupero della connessione vitalizzante tra psiche e soma, recisa a causa di relazioni traumatiche con i genitori, permetta all’impulso istintivo del Sé di manifestarsi, favorendo la riattivazione del processo di individuazione.

Parole chiave
Controtransfert somatico, participation mystique, identificazione proiettiva, corpo sottile, archetipo, psicoide, Sé.
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Salvatore Martini
Psicoterapeuta, Psicologo analista, Socio AIPA
e IAAP, Spazio di Consultazione Aipa, Membro
comitato di redazione rivista Psicobiettivo

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