Close

Regia di Lukas Dhont (2022)

aurora gentile




Nel film Close il regista, Lukas Dhont, ha accostato la queerness sotto un angolo nuovo.

Il suo primo film Girl (2018, pluripremiato e Camera d’or al Festival di Cannes nel 2018) seguiva il percorso di un ragazzo quindicenne transgender (Lara), attraverso le terapie ormonali e il suo desiderio folle fino al martirio di divenire una étoile. Nonostante la sua formale e preziosa raffinatezza e una colonna sonora lenta e sobria, il film è certo disturbante, a tratti osceno, e la sua tesi ci sembra poter essere così riassunta: bisogna sostenere le transizioni di genere con l’accelerazione delle procedure, pena automutilazione o suicidio.

Quattro anni sono trascorsi e Dhont sembra meno radicale e più incline a sondare l’enigma. Con questa seconda prova cinematografica l’ormai trentunenne Dhont prosegue la sua ricerca sulle emozioni queer con la storia di una relazione tra due ragazzi tredicenni, presentandola più che interpretandola, creando atmosfere in movimento più che dialoghi, come nelle lunghe scene, più volte riprese nel film, dei due ragazzini felici che corrono insieme lungo campi fioriti fino all’arrivo a scuola. Non è un caso forse che il film non faccia quasi uso di linguaggio verbale e insista sui primi piani del volto, molto espressivo, ma muto, del protagonista, il giovanissimo Leo. Il film, attento nella parte iniziale a documentare il periodo turbolento della preadolescenza tra un desiderio di gioco ancora molto infantile e un’inquietudine che indica l’emergenza della ricerca di nuovi significati, è una storia di legami e sentimenti che sfuggono continuamente alle parole; che si tratti di nominare senza riuscirci la natura stessa della relazione o di verbalizzare l’indecifrabile dolore della separazione, la parola fa fatica a trovare un posto. Il film comunque centra il suo obiettivo, di indagare i malintesi, le confusioni e i travisamenti che sopraggiungono quando la sessualità infantile è rivisitata in adolescenza, non è costruito per conquistare gli spettatori alla causa transgender, ma a coinvolgerli nella sofferenza enigmatica di Leo. Quei due si amano al di sopra di tutto e poco importa al regista di decidere sul tipo di relazione che li lega, Dhont gioca sui silenzi di una fase della preadolescenza in cui ogni avvenire è possibile.



La storia


L’amicizia tra Leo e Remì entra in crisi quando a scuola le domande curiose dei compagni sul loro reale livello di intimità (“siete in coppia?”) incrinano l’unità dei due, Leo decide allora bruscamente di prendere le distanze dall’amico. Così i due giovani inseparabili vedono la loro relazione subito fragilizzata dai pregiudizi di genere dei loro compagni. Forse preoccupato per l’idea che la sua amicizia con Remì sia percepita come qualcosa di sessuale, Leo si iscrive in una logica di performatività maschile. Su suggerimento di un amico di cui cerca di imitare i comportamenti virili, raggiunge il club locale di hockey su ghiaccio. La griglia di protezione del casco sul volto di Leo nelle intense inquadrature di gioco illustra forse l’autocensura emotiva che s’infligge il personaggio materializzando le nuove barriere erette tra il suo mondo interno e quello che lo circonda e un modo d’investire autoeroticamente l’accresciuto eccitamento pulsionale provocato dallo sviluppo biologico. Le domande dei compagni non sono ostili, o di condanna, i ragazzi si limitano a riflettere i codici con i quali stanno crescendo e le ideologie del tempo. L’amicizia tra i due ragazzi è così stretta, i due sono talmente amici, talmente complici e felici insieme che la domanda “state insieme?” sorge quasi come ovvia. E tuttavia è proprio questa intimità così scrutata il catalizzatore degli inattesi eventi che seguiranno.

La storia è in parte autobiografica e il regista vi proietta molto di sé.

Amicizia, intimità, paura, mascolinità, è a partire da queste quattro parole, ricordando gli amici di una volta forse persi per sue colpe, che Lukas Dhont racconta di essere riuscito a realizzare Close. Come dichiara in una intervista a Radio France (31 ottobre 2022): “Mi sono tornati in mente i tempi della scuola primaria, nel piccolo paese dove sono cresciuto, quei momenti dolorosi in cui le mie amicizie maschili fatte di intimità e sensualità hanno cominciato a farmi paura come qualcosa legato alla mia sessualità e non ero pronto a pormi queste domande, parlavo ancora il linguaggio della vulnerabilità e della tenerezza, e mi sentivo in colpa”.

A 13 anni i ragazzi descrivono le loro amicizie come storie d’amore. Ma oggi chi parla ancora della passione dell’amicizia, una forma d’amore sublimato che poco ha a che fare con l’identità di genere, anche se le manifestazioni della sessualità infantile marcano il percorso di un’amicizia fino all’età adulta? È un problema anche sociale: l’amicizia adolescenziale, così appassionata ed esclusiva, e che subisce paradossalmente il peso di una pressione sociale che impone di dover decidere sulla sessualità che l’infiltra, di che genere è? Nuove norme, certo, ma pur sempre norme che ribadiscono il conformismo (nuovo) che le ispira, appiattendo sulla scelta oggettuale il polimorfismo della sessualità infantile. Di questo si può morire, ne sarà vittima Remì, trasformando allora il film, nella sua seconda parte, in un racconto crudele.

Per molti critici cinematografici questa seconda parte fa pendere il film verso il melodramma per accattivare consensi, e pare gratuita. Ma non è proprio di lutto che parla il film fin dall’inizio? La storia di un lutto, che non si dichiara, di un bambino a cui è stato chiesto di crescere in fretta e che si trova improvvisamente impietrito per avere lasciato il mondo dell’infanzia e dover affrontare le responsabilità dell’adulto.

Il lavoro di rivisitazione nel momento dell’adolescenza, com’è stato osservato, si compie sotto due aspetti: l’après-coup freudiano e l’intricazione pulsionale tra narcisismo e stima di sé attraverso ciò che si chiama gli “autoerotismi” (Jeammet P., 19991). La pubertà e la stretta congiunzione di questo fenomeno biologico con un fenomeno sociale spingono l’adolescente ad autonomizzarsi. Chi dice maturità sessuale dice identità di genere, ma il problema dell’adolescenza è come “essere” uomo o donna nel proprio inconscio, pur facendo una scelta di un determinato sesso nelle relazioni attuali. Giacché tutte le problematiche si mescolano, non sorprende trovare investimenti omosessuali nel quadro di una fluidità pulsionale propria di questo periodo. Sarà per identificazioni successive, investimenti diversi, incontri, che si costruirà un destino sessuale unico per ogni individuo. L’impatto psichico del sociale e del culturale può essere però determinante col rischio, nel mondo di oggi attualissimo, di un condizionamento e di una sovraesposizione dell’intimità. Questo può provocare condotte di evitamento di ogni contatto reale e anche incrementare i passaggi all’atto, per saltare il tempo di attesa necessario a compiere un proprio percorso di soggettivazione.

L’adolescente, e anche il ragazzo alle soglie della pubertà, può allora essere tentato di rinunciare a un proprio progetto vitale e distruggersi. Ma prima di crollare, di scomparire, un atto, suggerisce Dhont, è ancora possibile, “scegliere il proprio sesso”, affermando con questo un radicale potere demiurgico di rifiuto di un’eredità non scelta attraverso il corpo, malgrado il corpo. Sono le scelte estreme di “Lara” e “Remì”, ma non la scelta di Leo che lascia intravedere un avvenire diverso.