The Florida Project

francesca de marino

Regia di Sean Baker (2017)

Questo commento propone una lettura psicoanalitica di The Florida Project (2017) di Sean Baker, film che mette in scena infanzia e genitorialità al tempo dell’ottimismo crudele. Intrecciando dimensione estetica, riflessione clinica e critica sociale, l’opera è qui analizzata come un dispositivo simbolico in cui l’infanzia emerge come soggettività resistente e generativa, capace di produrre senso anche nel cuore della marginalità. La negligenza parentale vi è rappresentata come espressione di un fallimento sistemico: sociale, istituzionale, culturale. Un fallimento che chiama in causa le posture del nostro sguardo clinico e interpretativo.

The Florida Project si inserisce nel percorso autoriale di Baker, regista statunitense che ha scelto di raccontare soggettività eccentriche e forme relazionali fuori norma: dai sex workers e le relazioni intergenerazionali di Starlet (2012), alle donne trans in Tangerine (2015), agli ex attori pornografici di Red Rocket (2021), fino alle giovani donne sospese tra illusione e rovina in Anora (2024, Palma d’Oro a Cannes). La sua filmografia è abitata da corpi contraddittori e marginali, desideri eccedenti, affetti disallineati che cercano legami nel disordine, senza redenzione.

Ma Baker non si limita a rappresentare il margine: lo interroga senza pietismo né moralismo, con uno sguardo ravvicinato e affettivo alle strutture invisibili che modellano la soggettività contemporanea: famiglia, sessualità, economia. Preferisce seguire le esitazioni, i gesti minimi, le tracce di relazione che sopravvivono anche nel collasso. I suoi personaggi vivono nella precarietà estrema, ma con una vitalità ostinata.

The Florida Project racconta una storia di genitorialità marginale, ambientata nei pressi del Disney World in Florida, in un motel chiamato Magic Castle. Il nome evoca castelli incantati, ma il film ne mostra il doppio perturbante: pareti scrostate, pavimenti sporchi, vita ai margini. Qui abitano famiglie senzatetto, madri sole, lavoratori poveri, protagonisti di una fiaba capovolta.

Il Magic Castle – dipinto di un lilla saturo e irreale – è uno degli elementi che inscrivono The Florida Project in quello che alcuni critici hanno definito “neon realismo”: un’estetica che accosta i colori brillanti della cultura pop e infantile alla durezza della povertà strutturale. L’uso esasperato di tinte pastello, luci artificiali e dettagli sgargianti produce uno scarto sensoriale, quasi allucinato, tra ciò che si vede e ciò che si vive. È una realtà che abbaglia e ferisce allo stesso tempo.

Il Magic Castle è così insieme casa e non-casa, rifugio e trappola, luogo dell’infanzia e della sua dissoluzione. È la materializzazione di ciò che Lauren Berlant ha definito “crudele ottimismo”: oggetti affettivi – maternità ideale, casa, appartenenza – che promettono felicità ma producono esclusione e immobilità. Una prigione colorata, travestita da salvezza.1

In questo paesaggio surreale e ambiguo, tra cieli infuocati e motel dai nomi fiabeschi, si consuma l’estate sgangherata di Moonee, sei anni, e di sua madre Halley. Un’estate che smaschera la retorica del sogno americano e, attraverso lo sguardo infantile, restituisce una visione poetica e spietata della genitorialità marginale.

Moonee attraversa quel mondo con uno sguardo libero e selvatico, apparentemente impermeabile alla durezza della vita. Reinventa la realtà attraverso il gioco, in un tempo sospeso, fatto di scoperte, sfide, trasgressioni condivise con altri bambini. Corrono senza paura tra discariche, case abbandonate e cieli inquinati.

Le inquadrature rasoterra restituiscono una percezione infantile dello spazio: sconfinata, ma segnata da una solitudine radicale. Il gioco diventa resistenza, narrazione affettiva del trauma, costruzione di senso nel vuoto.

Halley, la madre, è una figura tragica, disorganizzata. Sopravvive tra piccoli traffici, prestiti, gesti disperati. Non riesce a contenere sé stessa né sua figlia, eppure tra loro esiste un amore ruvido e viscerale: fatto di corpi, prossimità, sguardi. Una relazione fusionale, priva di terzietà, che oscilla tra eccesso e mancanza. La separazione è difficile, forse impossibile, ma anche segretamente invocata.

Il film apre uno spazio per pensare la relazione madre-figlia come intreccio proto-mentale, dove psichico e somatico non sono ancora distinti. Le zone traumatiche di Halley e Moonee si attivano a vicenda, da inconscio a inconscio, generando una rete affettiva opaca ma viva. Moonee, creatura dell’infantile e dell’attuale, respira inconsapevolmente la sofferenza dell’altra. È lungo questo sentiero che comincia a prendere forma il suo Io vivente.

Da questa fusione disorganizzata e da una trasmissione affettiva non simbolizzata emerge un campo intersoggettivo primario, segnato da angosce arcaiche e identificazioni reciproche. Si avvicina a ciò che Ogden ha definito terzo intersoggettivo: uno spazio condiviso che non appartiene né all’uno né all’altro, ma si costruisce tra loro, nell’informe e nel perturbante (Ogden, 2024).

Lo si coglie nei micro-eventi relazionali che il film dissemina con precisione: gesti senza parola, posture corporee simmetriche, momenti di oscillazione affettiva non mentalizzata. Le scene in cui madre e figlia mangiano distese sul letto o condividono rituali minimi (il bagno, l’abbigliamento) materializzano sul piano filmico questo spazio psichico terzo che eccede entrambi e li attraversa.

Parallelamente, la dinamica può essere letta alla luce della teoria di Laplanche, in particolare del concetto di trasmissione enigmatica: un messaggio psichico non decifrabile che il bambino riceve e incorpora, senza strumenti simbolici per elaborarlo (Laplanche, 2008). Moonee assorbe affetti e significazioni inconsce che non può ancora pensare: ne è un esempio la scena in cui Halley, impegnata in pose erotizzate per uno scambio online, lascia che la figlia resti nella stessa stanza. Il messaggio enigmatico non è solo l’evento, ma nella tonalità emotiva che lo accompagna: Moonee non lo comprende, ma ne resta segnata. L’inconscio infantile riceve una traccia non mentalizzabile, che agisce come seme psichico perturbante.

Su questo sfondo è possibile introdurre la nozione di sorellanza traumatica, come proposta da Lippi e Maniglier.2 Non si tratta del doppio femminile della fratellanza edipica, ma di un legame orizzontale, pulsionale, radicato nell’angoscia condivisa e nella co-esistenza dei sintomi.

Non è solo un capovolgimento semantico (da madre a sorella), ma un cambio di statuto psichico del legame: laddove viene meno la funzione di terzietà generazionale, il vincolo si ristruttura come alleanza orizzontale, in una co-esistenza sintomatica e affettiva. Non vi è né simmetria né protezione, ma un patto implicito di sopravvivenza, radicato nella comune esposizione all’angoscia. Halley e Moonee tremano nello stesso fuoco. Il loro legame non si fonda sulla cura, ma sulla condivisione grezza dell’eccitazione: un’intimità senza mediazione, che istituisce un’alleanza primitiva, pulsionale, fuori norma.

La loro è una sorellanza traumatica, fondata sulla Hilflosigkeit freudiana: un sovraccarico affettivo senza contenimento. La distinzione generazionale sfuma. Halley non è assente, ma invasa. Non contiene, ma condivide. Non può proteggere, ma offre una presenza grezza, disordinata, eppure operativa. Una materia psichica viva, come quella che, talvolta, incontriamo controtrasferalmente nel setting.

Moonee, immersa nel caos, cerca altri sguardi. Trova il silenzio attento di Bobby, il gestore del motel, e l’affetto della coetanea Jancey. Vive in ipervigilanza affettiva, in uno stato di eccitazione difensiva che le consente però di costruire un contro-racconto. Disordinato, ma vitale. Così comincia ad esistere come soggetto.

Il fragile equilibrio si spezza quando Halley rompe con Ashley, l’ultima amica. Isolata, ricade in un maschile abusante e in una sessualità senza più bordi. La discesa è rapida: prostituzione, aggressività crescente, un’escalation che sembra consumarsi fuori ogni contenimento.

In un gesto estremo e struggente, ruba dei braccialetti per entrare con Moonee al parco Disney. È un atto disperato e visionario: offrire, almeno per un giorno, la favola negata.

Un tentativo fallito di sospendere il trauma e creare uno spazio simbolico condiviso. Halley non riesce a placare l’angoscia della figlia, ma la condivide. E in quella trasmissione grezza, senza colpa e senza parola, si fonda un legame primario: non una madre mancante, ma una sorella sintomatica; non un legame normativo, ma un’alleanza pulsionale che resiste all’annientamento.

Quando Halley si definisce «una madre terribile», Moonee la guarda e conferma con disarmante tenerezza. È il loro modo di dirsi che si appartengono, nonostante tutto. Ma qualcosa si è incrinato. L’ultima colazione insieme, al fast-food, è un addio silenzioso, attraversato da una calma inquieta. Intorno, l’intervento del Servizio di Protezione Minorile – impersonale, tardivo, inesorabile – avanza come una forza cieca.

Moonee scappa. La sua corsa finale, girata con uno smartphone e montata come un lampo fuori registro, è una deflagrazione simbolica e psichica: un urlo allucinato che chiede riconoscimento, non salvezza.

Prima che lo spettatore possa prendere fiato, Baker introduce un’ultima figura-soglia che condensa il senso di tutto ciò che abbiamo visto: l’albero sradicato, con le radici esposte ma ancora vitali. Come quell’albero, Moonee corre senza fondamenta, ma continua a orientarsi verso la luce.

È un movimento proto-mentale, sospeso tra corpo e psiche, che trasforma l’abbandono in possibilità di visione. Un processo di soggettivazione primario, nato dalla vertigine della fusione e del disastro. Una sopravvivenza generativa, che prende forma nei margini più estremi. È lungo quel sentiero che, forse, nascerà il suo Io vivente.

Non è una fuga, né una salvezza. È un gesto affermativo. Moonee non chiede di essere salvata: chiede di essere riconosciuta. Rifiuta di essere ridotta a “caso”, a dossier, a “minore da proteggere”. Non vuole adulti eroici, ma adulti presenti.

In questa geografia umana, Bobby – il gestore del motel, interpretato magistralmente da Willem Dafoe – incarna una forma etica di terzietà. Non è padre, né redentore. È un adulto che resta. Sta. Tiene insieme ciò che può essere tenuto. È testimone discreto dei legami fragili, custode delle rovine. Non salva, ma accompagna. La sua presenza non cura il trauma: ne partecipa. Non rimuove il dolore, ma lo attraversa con misura. È lì dove le istituzioni mancano, o arrivano solo per interrompere.

Le false promesse del “crudele ottimismo” attraversano tutto il film come miraggi affettivi e il Magic Castle è il loro monumento: una prigione colorata, travestita da sogno.

E tuttavia, una “struttura del sentimento” – per usare l’espressione di Raymond Williams – sopravvive: nei giochi dei bambini, nella cura intermittente tra esclusi, nella discrezione di chi resta. In questi legami precari si attiva una funzione gruppale di elaborazione del dolore (Neri, 2007): una tenuta affettiva del mondo anche quando il mondo frana.

Nel film, la negligenza non nasce dalla mancanza d’amore, ma dall’assenza di possibilità. Halley non è solo una madre trascurante: è una giovane donna trascurata. Il sistema arriva tardi, e quando arriva, toglie. Interviene solo nel segno della colpa o della separazione. La povertà viene moralizzata. La maternità, punita.

Lo sguardo di Baker – forse debitore al neorealismo di De Sica e al lirismo disarmato di Truffaut – restituisce un’infanzia viva, non addomesticata. Non un oggetto da riparare, ma un soggetto che resiste, immagina, produce senso nella rovina.

The Florida Project mette in scena un paradosso clinico e politico: l’amore senza mediazione, la genitorialità senza strumenti, l’infanzia come luogo psichico radicale e creativo, anche nel trauma. Un’infanzia resistente, capace di generare senso nel cuore della precarietà, che ci obbliga a ripensare le categorie di negligenza, cura e riconoscimento.

Il film non offre modelli, ma domande aperte e urgenti: come riconoscere l’umano dove le forme simboliche sono venute meno? Chi può restare accanto a ciò che eccede le norme, senza volerlo addomesticare? Come restare accanto a chi sogna, anche quando tutto crolla?

Nel finale, Moonee corre – come Antoine in I 400 colpi di Truffaut. Non fugge: esiste. È una corsa psichica, un grido muto che attraversa lo schermo e ci raggiunge. Ci chiama in causa: dove siamo, mentre lei corre?

Il film non consola, non chiude. Ma chi saprà restare nello sguardo che il cinema di Baker ci chiede – uno sguardo prossimo, partecipe, senza difese – potrà intravedere, tra le crepe del reale, la forza generativa del desiderio infantile.

Anche un albero sradicato può continuare a crescere, se qualcuno ne riconosce la vita. E resta.

*Rubrica a cura di E. Fondi, M. Rossi (coordinatrici), L. Cocumelli, G. D’Amato, A. Gentile.

1Berlant L (2011). Ottimismo crudele, Milano: Timeo, 2024.

2Lippi S, Maniglier P. Sorellanze. Per una psicoanalisi femminista. Roma: Derive Approdi, 2023.