Vakhim

sarah gangi

Regia di Francesca Pirani (2024)

Vakhim, presentato nel 2024 alle Notti Veneziane durante l’81a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, racconta in modo intenso e poetico il viaggio personale di un bambino cambogiano adottato in Italia che, ormai adulto, decide di tornare nel proprio Paese d’origine per cercare la madre biologica e, attraverso di lei, una parte di sé che il tempo e la distanza avevano messo a tacere.

Il film si addentra nei nodi complessi dell’identità, del trauma legato all’abbandono, della memoria e della fratria. La narrazione segue il protagonista in un cammino interiore profondo nel riconnettersi con le radici da cui è stato separato nell’infanzia.

Diviso tra due mondi, quello della famiglia adottiva italiana e quello, lontano e sconosciuto, della Cambogia natale, Vakhim vive una frattura identitaria che si manifesta anche nella struttura frammentata del documentario. Una sorta di archivio di riprese familiari e scene ricostruite si intrecciano in un linguaggio visivo non lineare, che rispecchia lo stato emotivo del protagonista e il suo bisogno di ricomporsi.

La madre biologica del protagonista prende la dolorosa decisione di lasciarlo, spinta da gravi difficoltà economiche. Non si tratta di un vero abbandono affettivo: la donna sperava di poterlo ritrovare un giorno, ma viene ingannata da chi le aveva promesso aiuto, perdendo ogni traccia del figlio. Solo più tardi si scoprirà che la sua scelta è stata dettata dall’amore e dalla speranza, non dalla volontà di abbandonarlo.

L’assenza precoce della madre biologica, la perdita della lingua e del contesto originario rappresentano le prime ferite nel suo sviluppo psichico. Assistiamo ai primi vuoti, alla graduale rimozione del mondo e dei rapporti lasciati in Cambogia.

Piano piano Vakhim dimentica: la casa, la lingua, il passato, che persistono nell’inconscio come zone opache.

Sostenuto dalla madre adottiva, negli anni, Vakhim intraprende un percorso di riappropriazione del Sé. Il film alterna scene documentarie e sequenze oniriche, in cui memoria e ricostruzione si fondono, creando uno spazio visivo in cui il trauma può essere rivissuto in modo trasformativo. Di particolare rilievo sono le scene in cui bambini cambogiani reinterpretano episodi della sua infanzia, attraverso cui l’inconscio prende parola.

In questi momenti il passato viene rievocato in una forma di narrazione che permette al soggetto di integrare ciò che era stato escluso.

La figura materna, scissa tra la madre d’origine e quella adottiva, simboleggia una dualità affettiva profonda. La madre biologica rappresenta l’assenza e il desiderio originario; la madre adottiva, invece, è colei che accoglie e cerca di ricostruire.

La madre adottiva possiamo dire che assume un ruolo profondamente ricostruttivo e integrativo. Non si limita ad accogliere il ragazzo in un nuovo contesto affettivo, ma si fa ponte tra passato e presente, cercando di dare senso alla sua storia e di preservarne la continuità. Attraverso la narrazione attenta, empatica, mai di negazione, costruisce un racconto che non cancella l’origine, ma la include, valorizzandone anche gli aspetti positivi. Riconosce alla madre biologica una funzione di madre “sufficientemente buona”, riconoscendole la capacità di aver trasmesso a Vakhim risorse interiori utili all’adattamento e alla resilienza. In questo modo, contribuisce a evitare una frattura identitaria e psichica, aiutandolo a tenere insieme i pezzi della propria storia.

L’incontro con la prima è una straordinaria occasione simbolica in cui il trauma può essere espresso e tradotto in parola. Il ritorno in Cambogia, compiuto insieme alla sorella adottiva Maklin, assume così anche il senso di un ritorno psichico, di una regressione necessaria per dare nuova forma a un dolore antico.

Il ricongiungimento con la madre non è descritto come una risoluzione definitiva, ma come uno spazio sospeso, dove può finalmente emergere un linguaggio per raccontare la mancanza. Là dove prima esisteva solo silenzio e distanza, ora si apre la possibilità della riconciliazione e della comprensione.

In Vakhim, il cinema si fa spazio terapeutico: la macchina da presa si trasforma in un testimone silenzioso, un oggetto-sguardo che contiene, osserva e accompagna.

Attraverso una narrazione sensibile, il film offre una riflessione toccante sul senso di perdita, sull’elaborazione del trauma e sull’integrazione del Sé.

Il film ci ricorda che il lavoro psichico, così come quello della memoria, non segue linee rette, ma procede per ritorni, interruzioni, riscritture. Solo così il dolore può diventare narrazione, e la mancanza trasformarsi in senso.

Un elemento chiave del film è il ruolo della regista, Francesca Pirani, madre adottiva del protagonista. La sua presenza dietro la cinepresa trasforma il documentario in un doppio atto: quello del figlio che racconta sé stesso e quello della madre che, nel raccontarlo, riflette sul proprio vissuto, sulle implicazioni affettive ed etiche dell’adozione. La regia diventa così un contenitore, uno spazio dove la madre non solo accompagna Vakhim nel suo percorso, ma tenta di elaborare lei stessa il proprio ruolo di madre adottiva e la propria perdita.

Il film, in questo senso, non è solo una restituzione della storia di Vakhim, ma anche un tentativo da parte della madre di costruire un ponte tra sé e il figlio, attraverso un gesto di cura e holding.

La presenza della sorella Maklin introduce una dimensione relazionale di grande rilievo. La loro relazione si configura come un luogo di risonanza e confronto, in cui ciascuno trova nell’altro una conferma, ma anche una differenza.

Maklin condivide con Vakhim il passato, ma la sua elaborazione affettiva segue traiettorie diverse. Questo scarto evidenzia come la fratria sia anche un campo di tensione, dove si mettono alla prova modi diversi di affrontare il trauma. Maklin diventa per Vakhim un punto d’appoggio, una presenza che rende possibile il ritorno in Cambogia. Ma la sua ambivalenza emotiva sottolinea quanto ogni percorso identitario sia unico, scandito da ritmi interiori unici.

La loro relazione è allo stesso tempo luogo dell’assenza e della presenza.

In questo percorso, la sorella Maklin gioca un ruolo fondamentale: è compagna di viaggio, specchio emotivo, testimone e interlocutrice. Il loro ritrovarsi in Cambogia è anche un’occasione per condividere silenzi, rivelazioni e differenze. La fratria diventa così un luogo possibile di elaborazione comune, dove la complessità del trauma può essere accolta senza che nessuna delle due storie venga negata.

Vakhim si chiude come si è aperto: con uno sguardo che cerca. Ma ora non è più solo lo sguardo di un figlio verso una madre perduta, è anche quello di un uomo che, sostenuto da una rete affettiva complessa e stratificata, può finalmente dirsi più integrato. Il film ci consegna così un’immagine dell’identità come processo dinamico, mai compiuto, in cui il dolore può essere accolto e trasformato, e la memoria, anche quella più dolorosa, può ricomporsi.

*Rubrica a cura di E. Fondi, M. Rossi (coordinatrici), L. Cocumelli, G. D’Amato, A. Gentile.