Segnalazioni bibliografiche

Premessa introduttiva

In questo numero abbiamo scelto di fermarci, ascoltare, riflettere, pensare, prendere tempo. Tutte quelle funzioni che usiamo ogni giorno nel nostro lavoro affiancando la difficoltà dell’altro, e che oggi vengono così profondamente sollecitate da realtà belliche, silenziose o esplosive, che espongono il nostro sentire al dolore, all’annichilimento, alla violenza senza uguali, ad indicibili strazi di bambini, all’estirpazione della dignità umana, alla dis-umanizzazione sistematica dell’altro, all’esaltazione di identità vuote di valori umani e colme di conoscenze cariche di ideologie forzose, posticce, egoaliene, inelaborate e perciò inelaborabili. I due articoli che segnaleremo ci sono sembrate preziose testimonianze di una ricerca minuziosa e assolutamente doverosa per uno psicoterapeuta, non tanto di posizioni ideologiche o soluzioni attualmente ancora così impensabili e fuori da noi, ma di spiragli di umanità, di esilissimi rivoli di sensatezza che possano consentirci di esserci per fare la differenza, sfuggendo all’istinto difensivo di non schierarsi dalla parte dell’umanità. Brutalmente storditi dall’idea che tutti, nessuno escluso, ci si possa trasformare in mostri e pensando alla Segal, citata nel secondo articolo, il vero crimine è il silenzio, l’estremo movimento difensivo che può offrire orrendamente il fianco alla complicità, privandoci delle preziose potenzialità vitali del nostro lavoro. È necessario essere attenti ai pericoli della saturazione del pensiero, in cui si può rintanare l’odio, il pregiudizio, l’ideologia preconfezionata, ma non si può rischiare di trasformare l’astensione in un’assenza, non quando c’è più bisogno di noi e del coraggio, umano e analitico, di riconoscere ciò che è buono da ciò che non lo è. Al buio cui è esposta l’umanità, mentre bambini inermi, storie umane, radici antiche scompaiono davanti ai nostri occhi, non è più possibile che noi non ci si contrapponga, con una paziente, ma ferma e tenace, condivisa ricerca di senso. Una fiaccola che abbiamo il dovere di consegnarci l’un l’altro, perché essere testimoni non significhi assistere inermi e raggelati, ma invece essere portatori di una conoscenza, seppure spaventosa, ed anche della possibilità di avviare un pensiero trasformativo.

Flora Gigli

Auerhahn NC (2025).

Ich kann nicht vergessen, was du mir nicht sagen konntest. Eine Psychoanalytikerin hört Asylsuchenden zu.

Psyche - Z Psychoanal, 79, 6, 451-499. doi 10:21706/ps-79-6-451

“Non posso dimenticare quello che non hai potuto dirmi”. Bisogna rileggere più volte e far risuonare dentro di sé il titolo evocativo che A. Auerhahn ha voluto dare alle riflessioni sulla sua lunga esperienza di assistenza a rifugiati rinchiusi nelle carceri americane, a cui è stata negata la richiesta d’asilo in quanto giudicati “non credibili” nella loro paura, pur avendo essi alle spalle (e davanti a sé, in caso di rimpatrio forzato nel paese d’origine) gravi minacce alla loro sopravvivenza fisica e psichica. Attraverso il suo lavoro di perita (su base volontaria) Auerhahn vuole denunciare come il sistema giuridico non debba e non possa considerare la coerenza e la non contraddizione come unici sigilli di verità, perché la voce del trauma racconta una storia frammentata e piena di lacune; che il trauma non è un contenuto mentale, ma un fattore che influenza il pensiero; e che per sopravvivere al trauma, il sé cambia in modi che lavorano contro la capacità autoriflessiva, lasciando molti sentimenti e pensieri non riconosciuti, nemmeno simbolizzati. Infine, come il trauma e la sensazione di minaccia alla propria sopravvivenza vissuti nel paese d’origine continuano ad essere parte viva ed attiva della relazione con ogni nuova persona. Così non è sufficiente offrire un ascolto empatico per divenire un testimone affidabile: internamente il destinatario della comunicazione degli stati traumatici può continuare ad essere il carnefice del passato. Questo è particolarmente vero per le vittime di tortura, che associano chi ha perpetrato su di loro le torture alle circostanze delle udienze in cui sono costrette a parlare in tribunale per la loro pratica di immigrazione.

Il racconto di cinque storie di adolescenti ed adulti è un tentativo di dare voce a persone che non hanno nessuna voce, si trovano spaventate, ammutolite, rinchiuse in carcere senza alcun mezzo economico, rischiando di rinunciare a ripresentare la loro richiesta d’asilo pur di sfuggire alla etichetta di “criminali”. Un modo di operare psicoanalitico significa, secondo Auerhahn, mettere la propria psiche al servizio non solo dell’ascolto dell’inconscio storico di questi individui traumatizzati, delle esperienze non verbalizzabili, degli stati dissociativi e dei meccanismi di difesa che nascondono la psiche al sé, ma anche delle forze culturali e sociali che lo strutturano e che mettono a tacere tutti noi. Non è facile resistere all’impulso di distogliere lo sguardo da realtà estremamente violente, perturbanti, non solo come difesa dalla violenza della realtà esterna ma anche come difesa dalla aggressività omicida che risiede negli strati più profondi della personalità di ognuno di noi; ma ancor più difficile diventa quando – come sottolinea la Auerhahn – vi è una intera società che criminalizza la migrazione, immergendo le persone in un mondo psicotico che fornisce un mantello per guardare dall’altra parte.

Un procedere psicoanalitico implica anche la necessità di prestare attenzione a quello che Auerhahn chiama una interpersonalizzazione della dissociazione. Essa illustra i potenti processi di mimesi, che si attivano in chi ascolta e si può trovare confrontato con una propria reazione confusa o distaccata o crudele, ed immagina come questa mimesi - che non passa tanto attraverso il canale verbale ma attraverso immagini, gesti, voci che creano un’esperienza sensoriale e corporea condivisa - sia anche necessaria come unico modo per prendere coscienza delle esperienze non rappresentate di entrambi.

Nel riflettere sulle proprie personali reazioni confuse, sui propri vuoti o dimenticanze (o anche rifiuti) nell’incontro con i richiedenti d’asilo, Auerhahn fa riferimento alla propria storia di figlia di sopravvissuti all’Olocausto e riconosce in essi i meccanismi difensivi che si attivano in chi tenta di divenire testimone del dolore traumatico di un Altro ammutolito e paralizzato, e si trova improvvisamente egli stesso in difficoltà nel creare dei legami psichici ed emotivi, a rischio di frammentazione protettiva in stati dissociativi. Auerhahn ricorda la propria dolorosa sensazione di bambina, quella di essere stata tagliata fuori e isolata dal silenzio dei suoi genitori, che viene interiorizzato sotto forma di aree vuote, come assenza di un dialogo interiore tra sé e l’oggetto.

Veronika Garms

Ezquerro A, Cañete M (2025).

Israel-Palestine: unresolved group trauma is an obstacle for peace.

Group Analysis, 58, 2.

doi 10.1177/05333164241306348

Il conflitto israelo-palestinese e più specificamente la drammatica situazione che la popolazione palestinese sta vivendo a Gaza, mostrano come la sofferenza causata dall’uomo sull’uomo lasci ferite insanabili, traumi personali e collettivi che, innescando circoli viziosi alimentati dall’odio, terrore e distruzione, ostacolano i processi che potrebbero portare verso la pace e la convivenza.

Gli autori, riprendendo il lavoro della Segal “Il vero crimine è il silenzio”, ci esortano ad allargare il campo d’intervento oltre i confini dei nostri studi per denunciare pubblicamente i crimini e i soprusi che la popolazione civile palestinese sta vivendo in questo momento.

L’articolo si prefigge di esaminare la sofferenza individuale e collettiva in una situazione di trauma continuativo attraverso tre prospettive, quella psicoanalitica, quella gruppo-analitica e dell’attaccamento di gruppo, al fine di incoraggiare la società intesa come collettività, ad impegnarsi il più possibile per sostenere processi di pace.

Coniugando antropologia e ricerca gruppo-analitica gli autori sottolineano come l’uomo da nomade cacciatore sia diventato coltivatore stanziale. Tale passaggio ha cambiato in modo radicale il nostro rapporto con la terra ed ha comportato nuove forme di conflittualità tra popolazioni. Se l’attaccamento del gruppo al proprio territorio viene posto alla base della conflittualità tra popoli, gli autori ritrovano proprio nel gruppo e nella ri(e)voluzione di un nuovo attaccamento di gruppo, la possibilità di invertire processi autodistruttivi come il negazionismo climatico e il rischio di un conflitto nucleare, che drammaticamente caratterizzano il nostro presente.

Per analizzare tali processi gli autori si soffermano sul conflitto israelo-palestinese che in questo momento sta attraversando una crisi senza precedenti. L’attentato terroristico del 7 ottobre da parte di Hamas con più di 1200 vittime e 250 ostaggi è stato per Israele il giorno più sanguinoso dall’Olocausto. Questo però non può giustificare l’efferatezza della risposta militare di Israele, incurante del diritto internazionale, ai danni della popolazione palestinese. I bombardamenti a tappeto hanno ridotto in macerie tutta la striscia di Gaza e mietuto migliaia di vittime, tutto ciò non può essere accettato come l’inevitabile danno collaterale associato al diritto di Israele all’autodifesa. Secondo gli autori, traumi irrisolti come l’Olocausto per gli ebrei fanno affiorare angosce profonde e transgenerazionali che, innescando circoli viziosi di violenza e vendetta, determinano a loro volta nuovi traumi collettivi come la Nakba palestinese. Questo termine si riferisce alla pulizia etnica e l’uccisione sistematica dei palestinesi, al loro spostamento forzato, all’esproprio e distruzione delle loro case, della loro società, della loro cultura, della loro identità e dei diritti umani.

Quali sono i processi alla base di questi circoli di violenza e distruzione? Bowlby, coinvolto nei movimenti pacifisti prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, in un lavoro del 1939 aveva già descritto come la privazione o la minaccia di privazione fossero tra le principali fonti di odio ed aggressività. Tali sentimenti possono essere proiettati in membri di altri gruppi facendone così capri espiatori vessati, perseguitati o sterminati. Freud, in “Psicologia delle masse e analisi dell’Io”, vede il gruppo come fonte di protezione e cura per i singoli individui, ma allo stesso tempo identifica meccanismi per cui il Super-io individuale può confluire in un Super-io gruppale, rendendoci capaci di commettere atti efferati secondo una morale sovradeterminata.

Bion ha collegato questo funzionamento del gruppo a meccanismi di scissione e proiezione. Gli aspetti indesiderati e distruttivi di ciascun membro sono scissi in frammenti e raggruppati in ciò che Bion identifica come la “mentalità del gruppo”. Tale pensiero gruppale spinge la ricerca di nemici identificati con le parti intollerabili proiettate, e trova fondamento sulle angosce persecutorie che accendono conflitti e guerre.

Il gruppo può avere una funzione “costruttiva” e una “difensiva”. Nel primo caso il gruppo si costituisce come un “gruppo di lavoro” capace di portare a termine un compito; nel secondo il gruppo diventa ricettacolo delle parti psicotiche di ciascun membro e funziona secondo quelle che Bion chiama gli assunti di base. La Segal allarga il modello bionano e lo utilizza come una lente per spiegare i fenomeni globali che hanno interessato il nostro recente passato. Il mondo post Hiroshima si è assestato su un funzionamento schizo-paranoide in cui due super potenze in conflitto, secondo una premessa psicotica, vedevano reciprocamente nell’altro la minaccia del proprio annientamento. Secondo la Segal quando un presupposto psicotico di base domina un gruppo, l’intero gruppo, agendo su tale presupposto, contribuisce all’ascesa di leader paranoici che, attraverso processi proiettivi crescenti, diventano sempre più pericolosi, onnipotenti e folli. Oltre ai meccanismi di scissione e proiezione la Segal riconosce processi di spersonalizzazione, disumanizzazione, frammentazione e distorsione del linguaggio, quindi della realtà. Il gruppo però svolge anche una funzione essenziale, poter contenere le parti psicotiche dei singoli individui. Questo permette di tollerare che il male non può essere eradicato dal mondo perché è parte di tutti noi; le crociate, la distinzione netta tra bene e male sono frutto di proiezioni reciproche proprie di una mentalità globale delirante.

Partendo dall’assioma che ognuno deve far parte di un gruppo per sopravvivere, gli autori segnalano forme perverse di attaccamento al gruppo. Questo accade quando traumi e ostilità vengono proiettati in modo massiccio; in questo modo parti importanti del sé vengono sconfessate e depositate nel gruppo determinando una forma di legame-sudditanza dell’individuo che la Segal descriveva come essere “pecore cieche portate al macello”.

Il conflitto in medio oriente non può essere compreso pienamente se non si tiene conto proprio del contesto traumatico: il colonialismo per il mondo arabo e l’antisemitismo per gli ebrei. Ignorarlo porta a letture parziali che non considerano l’interiorizzazione della violenza coloniale da parte della popolazione colonizzata e la conseguente violenza contro i colonizzatori. Hamas è nato proprio nel contesto dell’occupazione israeliana e della crescente espansione coloniale in terra palestinese. Nel conflitto israelo-palestinese è possibile identificare le stesse credenze presenti nelle democrazie occidentali neoliberiste che si arrogano il possesso dei “veri” valori civili, e proiettano le parti incivili in coloro che colonizzano e sfruttano. Questi processi dissociativi non permettono di considerare la violenza dei coloni come primo motore per la susseguente violenza terroristica, e al contrario identificano l’oppressore come vittima di aggressioni ingiustificate.

Ezquerro nell’articolo presenta il caso clinico di una donna altamente traumatizzata sopravvissuta all’Olocausto. Gli autori sottolineano quanto sia stato importante affiancare alla psicoterapia individuale incontri di psicoterapia di gruppo che hanno permesso di fare un’esperienza riparatoria, attraverso un nuovo attaccamento al gruppo terapeutico, aiutandola a riconciliarsi con l’ambiente circostante, da sempre vissuto come pericoloso e inaffidabile.

Riprendendo la Arendt, Olocausto e Nakba sono esperienze altamente traumatiche perché comportano la perdita della casa, delle figure di attaccamento e di tutto il tessuto sociale di appartenenza. Secondo lo psichiatra Samah Jabr, in Palestina le persone oramai da decenni vivono in uno stato di stress traumatico cronico; intere generazioni di palestinesi sono nate e cresciute in una continua escalation di terrore, una mancanza strutturale di servizi, assenza di diritti e delle libertà fondamentali; tutto questo innesca delle spirali di ri-traumatizzazione continua. Gli ultimi rapporti di Save the Children denunciano una situazione sconfortante dello stato di salute mentale dei bambini di Gaza: depressione, dolore, terrore e autolesionismo colpiscono più della metà di loro.

Olocausto e Nakba sono traumi transgenerazionali che continuano a sconvolgere l’inconscio sociale della comunità ebraica e palestinese. La Nakba però viene decritta come un genocidio al rallentatore, una forma continua e permanente di trauma collettivo. Il conflitto israelo-palestinese rappresenta un tragico esempio di quello che accade quando un trauma incapsulato viene riattivato. L’incapsulamento del trauma, considerato come una dissociazione funzionale per contenere l’angoscia di annientamento, comporta però un arresto della capacità della mente, individuale e collettiva, di pensare al conflitto secondo una prospettiva che vada verso la pace.

Guarire il trauma collettivo è un compito complesso e impegnativo; un processo di gruppo che implica ricordare e provare a dare un senso ad esperienze dolorose e travolgenti. Tale processo richiede una cultura di gruppo che possa includere un pensiero collettivo autentico volto all’ascolto e alla reciprocità in un’ottica di riparazione.

Marco Carboni

*Rubrica a cura di: F. Gigli (coordinatrice), L. Baldassarre, M. Carboni, S. Cimino, L. De Rosa, A. Flori, V. Garms, A. Rizzo.